“Non conta il giudizio dei giornali, ma quello del buon Dio”, ha detto di recente Benedetto XVI. Ma a quanto pare, per lui, Dio si prende ancora tempo.

I 90 anni che il papa emerito compie domani – in coincidenza con la Pasqua (addirittura una Pasqua di tutte le confessioni cristiane) – smentiscono le motivazioni circolate per la rinuncia (infatti lui è tuttora lucidissimo) ed essendo un’età imprevista (Ratzinger ha confidato che non credeva di arrivarci) viene da pensare che il suo “Principale” abbia ancora un compito da fargli svolgere.

Potrebbe esserci ancora un capitolo nel libro di Dio su quest’uomo mite e profondo? I narratori insegnano che è il finale che rivela il senso di una vita.

LOTTA CON DIO

Nel caso di Joseph Ratzinger si ha la sensazione che ci sia stato un braccio di ferro, una di quelle contese grandiose che nella Bibbia vedono i grandi patriarchi, come Abramo, Giacobbe e Mosè, lottare con Dio.

La lotta è su chi, come e quando debba scrivere la parola “fine”. Benedetto XVI ha provato a farlo l’11 febbraio 2013, premuto da situazioni pesantissime che lo facevano sentire impari di fronte alla guerra che gli era stata scatenata contro.

Decise di “morire al mondo” ritirandosi in eremitaggio di preghiera. Ma un’altra voce potente – dentro la sua coscienza – deve essere risuonata se, pochi giorni dopo, rese nota una decisione che andava in senso opposto.

Infatti – caso unico nella storia della Chiesa – lui non tornava allo stato di vescovo, ma diventava “papa emerito”, addirittura mantenendo il titolo, le insegne e l’abito papale.

Nel suo ultimo discorso, il 27 febbraio 2013, disse, a proposito del ministero petrino: “il ‘sempre’ è anche un ‘per sempre’ – non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo”.

Cosa significava tutto questo? Pochi si posero la domanda. Ma che sotto ci fosse un colossale mistero si capiva.

E infatti – anche se abbiamo dovuto aspettare tre anni – alla fine lo ha spiegato il suo segretario, mons. Georg Ganswein, in una clamorosa conferenza fatta alla Pontificia università Gregoriana nel maggio 2016.

PAROLE ESPLOSIVE

Fra le altre cose – deliberatamente ignorate dai media – egli spiegò che al Conclave del 2005 si consumò “una drammatica lotta tra il cosiddetto ‘Partito del sale della terra’ ”, cioè quello in continuità con Giovanni Paolo II che aveva in Ratzinger il suo candidato, “e il cosiddetto ‘Gruppo di San Gallo’ intorno ai cardinali Danneels, Martini, Silvestrini o Murphy-O’Connor”, cioè il partito “modernista” che voleva eleggere Bergoglio.

La “chiave” di questo “scontro”, sottolineò Ganswein, fu fornita dallo stesso Ratzinger e riguardava la lotta fra Cristo stesso e “una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo”.

Nel 2005 prevalsero i cattolici e fu eletto Ratzinger. Che però, dopo otto anni di guerra, sembrò cedere le armi in circostanze drammatiche, ma Gänswein non parla di uscita di scena, bensì di un “ponderato passo di millenaria portata storica che Benedetto XVI ha compiuto”.

Ricordò il fulmine che colpì la cupola di san Pietro quel 13 febbraio 2013 e aggiunse: Di rado il cosmo ha accompagnato in modo più drammatico una svolta storica”.

Per Gänswein, Benedetto XVI col suo gesto “ha profondamente e durevolmente trasformato il ministero papale nel suo pontificato d’eccezione”, perché “egli introdusse nella Chiesa cattolica la nuova istituzione del ‘Papa emerito’, dichiarando che le sue forze non erano più sufficienti per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”.

Ancora una volta si parla di rinuncia all’“esercizio” del munus petrino, non di rinuncia ad esso.

Prima e dopo le sue dimissioni” spiegò Gänswein “Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione a un tale ‘ministero petrino’. Egli ha lasciato il Soglio pontificio e tuttavia, con il passo dell’11 febbraio 2013, non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune”.

Poi Gänswein disse: “Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è ‘Santità’; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato che egli, con quel passo, ha arricchito”.

AUTOREVOLI CONFERME

Nell’ottobre scorso il card. Gerhard L. Müller, prefetto dell’ex S. Uffizio, in un’intervista all’edizione tedesca della Radio vaticana si è di fatto associato a questa “versione” delle cose: Per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo il caso di due legittimi papi viventi. Certamente solo Papa Francesco è il Papa, ma Benedetto è l’emerito, perciò in qualche modo ancora legato al papato. Questa situazione inedita deve essere affrontata teologicamente e spiritualmente”. 

Nonostante il fuoco di sbarramento dei bergogliani lo ha confermato lo stesso Benedetto XVI nel libro intervista con Seewald (“io sono ‘padre’ e tale rimango per sempre”) come già fece nel discorso del 27 febbraio 2013.

Dunque papa Benedetto lascia che sia Dio a scrivere il finale della sua storia. Che potrebbe essere davvero molto sorprendente.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 15 aprile 2017

(nella foto: il Papa emerito che benedice dei vescovi inginocchiati davanti a lui)

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