Proprio nei giorni in cui tutti – con fiumi di ipocrisia, di amnesia e di autoassoluzione – ricordano il crollo del Muro di Berlino, arrivando a incredibili assurdità (nella più totale dimenticanza di quanto il comunismo qua da noi abbia impregnato i media, la cultura, la scuola e non solo), esce un nuovo libro di Federico Rampini che squaderna davanti ai nostri occhi ciò che negli Stati Uniti è evidente da tempo (e che l’Europa non vede): l’altro comunismo, quello travestito da capitalismo, il comunismo – per così dire – vincente (informazione da dare a chi ripete da anni che il comunismo è defunto, quindi è inutile parlarne).

Vincente proprio sul fronte che vide crollare il comunismo sovietico: l’economia e la tecnologia. Ma restando un sistema totalitario  e comunista come quelli di sempre.

La nuova superpotenza cinese – con un miliardo e 400 milioni di abitanti – ha ormai raggiunto le dimensioni dell’economia americana e adesso s’impone nel mondo come antagonista globale degli Stati Uniti. Ecco perché Rampini titola il suo libro “La seconda guerra fredda”  (Mondadori), descrivendo lo scontro planetario fra Occidente e Oriente comunista, non più nel bipolarismo Washington/Mosca, ma nel confronto Washington/Pechino.

Tutto questo – per la verità – era già stato spiegato (e perfino predetto) da tempo, in Italia, da Giulio Tremonti  che purtroppo Rampini non cita, mentre avrebbe dovuto riconoscergli una straordinaria capacità di analisi e di previsione  sia sugli effetti della globalizzazione mercatista  che sulla Cina  (previsioni fatte quando tutti decantavano “le magnifiche sorti e progressive” sia della globalizzazione che della Cina).

In ogni caso oggi queste cose vengono illustrate – a suo modo – anche da Rampini e rilanciate (ieri) dalla pagina culturale di “Repubblica”, così – con il solito ritardo – anche il salotto “progressista” italico comincerà a parlarne, ovviamente credendo di esserne lo scopritore.

Ecco l’idea centrale del libro di Rampini:

“Il tramonto del secolo americano e la possibile transizione al secolo cinese bruciano le tappe, lo scenario si fa attuale e accade nel modo più sconvolgente. È turbolento, traumatico. Due imperi, uno in declino e l’altro in ascesa, accelerano la resa dei conti. Chi sta in mezzo – come gli europei – farà la fine del vaso di coccio? Nessuno di noi è attrezzato per affrontare la tempesta in arrivo. Neppure i leader al comando delle due superpotenze hanno un’idea chiara sulla dinamica della sfida, sulle prossime puntate di questa storia, sul punto di arrivo finale”.

Che sia in atto questo conflitto epocale  (e l’Europa sia il vaso di coccio) è stato (pre)detto – lo ripeto – da Tremonti quando nessuno da noi lo diceva. Il quale Tremonti però non condivide affatto l’idea che possa vincerlo la Cina. Né che l’America sia al tramonto.

È necessario però capire alcuni nodi storici della nuova guerra fredda in cui stiamo entrando. Come, quando e perché la Cina è diventata così potente da poter essere oggi l’antagonista degli Stati Uniti?

A fornire alla Cina la corda con cui potrebbe “impiccarci” – per dirla con Lenin – è stato proprio l’Occidente. O meglio: l’Occidente mercatista e globalizzatore degli anni Novanta, quell’occidente clintoniano  che tra 1999 e 2001 permise l’ingresso di colpo della Repubblica popolare nella World Trade Organization (Wto) addirittura con clausole di favore, ritenendola un paese in via di sviluppo e in cammino verso la democrazia.

Della democrazia non c’è traccia (anzi, sempre peggio), in compenso quella Cina – diventata la fabbrica del mondo – ha messo fuori mercato l’industria occidentale  (generando disoccupazione e povertà in Europa e Stati Uniti) e ora si presenta come superpotenza  economica, tecnologica, militare e politica.

Il libro di Rampini ha il merito di far capire che è del tutto fuori strada chi crede che il problema sia rappresentato solo dalla controversia commerciale  con gli Usa e dai dazi di Trump.

“Un tempo” scrive Rampini “i governanti di Pechino sapevano di poter contare su un alleato formidabile a Washington: le lobby che difendono gli interessi delle multinazionali americane. Quando Trump ha iniziato ad agitare la minaccia dei dazi, nel 2017, c’è stato un principio di resistenza. Dalle associazioni confindustriali agli editoriali del ‘Wall Street Journal’ la voce del capitalismo americano si è fatta sentire, e come sempre ha difeso le frontiere aperte. Ma quella battaglia è andata scemando. Con il passare del tempo l’establishment capitalistico americano si sta rassegnando all’idea che i rapporti con Pechino non saranno mai più come nell’ultimo trentennio”.

La data simbolica di inizio di questa nuova “guerra fredda”  può essere individuata, secondo Rampini, nel discorso che il 4 ottobre 2018  tenne il vice di Trump, Mike Pence, a un importante think tank di Washington, lo Hudson Institute.

Ma quella svolta non è un’improvvisazione: “è il concentrato di analisi anticipate mesi prima nel documento sulla National Security Strategy”.

Spiega Rampini: “Tutto questo non dipende soltanto da Trump né ha inizio con la sua presidenza. Bisogna evitare la facile tentazione di attribuire al suo turbopopulismo nazionalista il sabotaggio della globalizzazione: questa è la versione di comodo che Xi è andato a esporre al World Economic Forum di Davos, ma non regge. In realtà era nell’aria già da tempo un riesame dei rapporti Usa-Cina. Lo conferma un autorevole rapporto americano i cui artefici non sono affatto vicini a questo presidente. Gli danno però atto di aver visto giusto sulla Cina, anche se i metodi che usa non sono efficaci. La minaccia che viene da Pechino è molto più seria di quanto l’Occidente abbia compreso: economica e tecnologica, politica e militare, è una sfida egemonica a tutto campo, contro la quale bisogna correre ai ripari”.

Fin qui la descrizione di Rampini che poi nel libro sviluppa su molti altri aspetti (anche relativi all’Italia). È interessante soprattutto perché fa intuire che questa parziale de-globalizzazione  che porta la firma di Trump in realtà è una svolta maturata nella stessa America da cui trent’anni partì la globalizzazione.

Comporterà diversi cambiamenti, probabilmente anche il ritorno della manifattura in Occidente  e un certo ritorno degli Stati nazionali. La speranza è che tornino a contare i popoli (rispetto alle élite)  e la politica torni a prevalere sul potere economico-finanziario.

In totale controtendenza appare l’Unione europea  che – per la sua totale mancanza di guida strategica e per i suoi rapporti con la Cina – rischia di venire stritolata  da questa guerra fredda di cui non sembra capire nulla. Anche perché non ha capito  – mi spiega sorridendo Giulio Tremonti – che la Brexit non è un disastro per la Gran Bretagna, ma per l’Unione europea  giacché l’Europa senza l’anglosfera non può esistere.

Così come in totale controtendenza è il pontificato di Bergoglio  che fin dall’inizio ha dichiarato guerra a Trump. Un papa che continua a glorificare il globalismo, la Ue, l’Onu  ed ha consegnato – con un accordo avvilente – il controllo dell’eroica Chiesa Cattolica cinese al regime comunista di Pechino.

“L’attuale balzo della Cina” ha dichiarato Tremonti “ormai va ben oltre la manifattura, punta ai beni del futuro, all’intelligenza artificiale. Per arrivare alla supremazia globale. O forse per evitare il destino prossimo e terribile portato da una demografia avversa, perché mai nella storia dell’umanità si è visto un così massiccio agglomerato di anziani in una enorme area rurale”.

Infatti Tremonti – a differenza di Rampini – non vede affatto gli Stati Uniti in declino: “in realtà oggi sembrano più forti che mai. Davvero è America first, great again”.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 10 novembre 2019

 

 

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