E’ scoppiato il caso di padre Giovanni Cavalcoli, il domenicano che ai microfoni di “Radio Maria” (e poi ad altri microfoni) ha detto, sul terremoto e le unioni civili, delle enormità che sono state comprensibilmente bacchettate dal Vaticano.

Subito “Corriere della sera” e “Repubblica” hanno cercato di incasellare p. Cavalcoli nel fronte “destro”. Il “Corriere” ha scritto che il frate “ha fama di ultrareazionario”. E “Repubblica” ha cercato di farlo passare come un teologo avverso a papa Bergoglio.

Si dà il caso invece che p. Cavalcoli sia un acceso sostenitore di papa Bergoglio. Infatti – nel pieno delle polemiche del Sinodo sulla famiglia – gli fornì un un decisivo supporto teologico.

Il 17 ottobre 2015 fu pure intervistato su “Vatican insider” dal più bergogliano dei vaticanisti, Andrea Tornielli, a sostegno delle tesi del papa e, in quell’occasione, in cui si scagliò contro il “conservatorismo rigorista”, Tornielli lo presentò come un’autorità.

Non parliamo poi di “Radio Maria” il cui tifo bergogliano è sfegatato: da lì piovono fulmini e saette su tutti coloro che avanzano riserve sulle idee di Bergoglio.

Dunque la realtà è del tutto diversa da quella che i giornali vogliono far passare. Non c’è una “chiesa reazionaria” che parla del terremoto a Norcia come un castigo divino per le unioni civili e una chiesa illuminata e moderna, quella di papa Bergoglio, che si emancipa da queste enormità.

La Chiesa – come Israele nella Bibbia – è in cammino e cerca di comprendere sempre più profondamente, attraverso la storia che vive, i tesori di misericordia dell’avvenimento cristiano. E il più illuminato, colui che più sta illustrando questi tesori, si chiama Benedetto XVI (del resto, oltre ad essere papa, è una delle menti teologiche più straordinarie del nostro tempo).

GIOVANNI XXIII E I “CASTIGHI”

Per capire questa evoluzione ricordo un precedente: Giovanni XXIII, il papa del Concilio, colui che normalmente è ritenuto il più progressista e illuminato (Bergoglio lo ha canonizzato e lo indica come suo modello).

Il 28 dicembre 1958 papa Giovanni inviò un messaggio alla popolazione di Messina per il 50° anniversario del terremoto che aveva distrutto la città.

Il pontefice fa l’elogio di quella povera gente, per la sua fede e la sua umanità nella sventura. Poi esalta la “grandiosa e meravigliosa opera di soccorso” e ricorda quanto si adoperò il suo predecessore, san Pio X, per soccorrere la popolazione.

Infine Giovanni XXIII afferma:

Egli (Gesù) vi dice di fuggire il peccato, causa principale dei grandi castighi, di amare Dio al di sopra di tutte le cose, di riporre in Lui solo la vostra speranza e la vostra difesa contro le calamità, poichè ‘Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori/. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode’ (salmo 126). Vi dice inoltre che in quest’ora tremenda in cui lo spirito del male adopera ogni mezzo per distruggere il Regno di Dio, debbono essere impegnate tutte le energie per difenderlo, se volete evitare alla vostra città rovine immensamente più grandi di quelle materiali disseminate dal terremoto cinquant’anni or sono. Quanto più arduo sarebbe allora riedificare le anime, una volta che fossero staccate dalla Chiesa e rese schiave delle false ideologie del nostro tempo”.

Sono parole che metterebbero in imbarazzo i giornali liberal e i cattoprogressisti perché non corrispondono affatto all’immaginetta buonista che si sono fabbricati del papa del Concilio.

Ma non mi pare nemmeno che queste parole di Roncalli si possano accostare (solo perché parla del peccato come “causa principale dei grandi castighi”) a quanto ha detto padre Cavalcoli.

Anzitutto perché Giovanni XXIII ragiona teologicamente e non si mette a indicare le unioni civili o cose del genere (peraltro realizzate altrove) come causa di un terremoto a Messina.

E poi perché il Pontefice in questo caso vuole ricordare ai fedeli – come fa Gesù nel Vangelo, parlando del crollo di una torre su alcune persone – che per un cristiano c’è qualcosa di peggio della morte fisica ed è perdere l’anima e dannarsi.

E’ all’interno di questo tradizionale insegnamento che egli parla di “castighi”. Espressione che tuttavia, oggi specialmente, rischia di essere usata male o essere fraintesa. E’ per noi una parola incomprensibile.

Questa Chiesa in cammino, da Giovanni Paolo II ad oggi, sta riflettendo e cerca di spiegare più profondamente il mistero del male, soprattutto di fronte a un secolo in cui ci sono stati milioni di vittime innocenti, specialmente bambini.

BENEDETTO XVI ILLUMINA

E’ Benedetto XVI colui che più di tutti sta insegnando alla Chiesa come uscire dal linguaggio dei “castighi”, che erroneamente attribuisce a Dio i miseri pensieri e i (ri)sentimenti degli uomini.

Proprio nella messa in piazza San Pietro, alla vigilia della sua elezione al papato, nell’aprile 2005, disse:

Cosa vuol dire Isaia quando annuncia il ‘giorno della vendetta per il nostro Dio’? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del testo profetico… ha offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce. ‘Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce’. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi”.

Poi in una recente intervista teologica, da papa emerito, a padre Jacques Servais, si spinge oltre nel riformulare e ribaltare la nozione corrente di “ira di Dio”.

L’intervistatore osserva:

“quando s. Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno. Esprimendosi in questo modo, si rischia di proiettare su Dio un’immagine di un Dio di collera, afferrato, dinanzi al peccato dell’uomo, da sentimenti di violenza e di aggressività paragonabile/i a quello che noi stessi possiamo sperimentare. Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che quello dei cristiani è un Dio ‘ricco di misericordia’ (Efesini 2, 4)?”.

Benedetto XVI risponde: La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile. E’ nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi”.

Poi articola una risposta complessa di cui sottolineo un passaggio:

“La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è ab intrinseco una sola”.

Infine papa Benedetto cita una pagina di un antico autore ecclesiastico, Origene:

“Il Redentore è entrato nel mondo per compassione verso il genere umano. Ha preso su di sé le nostre ‘passiones’ prima ancora di essere crocefisso anzi addirittura prima di abbassarsi ad assumere la nostra carne… Ma quale fu questa sofferenza che egli sopportò in anticipo per noi? Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, lui che è sovrabbondante di longanimità, pazienza, misericordia e compassione, non soffre anch’egli in un certo senso?Nel deserto l’Eterno, il tuo Dio, ti ha portato come un uomo porta il suo figliuolo, per tutto il cammino che avete fatto’ (Deut. 1, 31)…. Il Padre stesso non è senza passioni!… Egli percepisce una sofferenza d’amore”.

Così Benedetto XVI aiuta la Chiesa a disfarsi di un linguaggio pre-cristiano ed entrare più profondamente nel mistero di Dio. Proprio nel papa emerito, Bergoglio potrebbe trovare la luce e l’aiuto per guidare la barca sulla rotta giusta. Se solo lo accettasse.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 6 novembre 2016

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