Quando sento dire “il prete degli ultimi” io penso al grande e umile fratel Ettore Boschini che, lontano da tutti i salotti e i riflettori, per anni, portando in giro la statua della Madonna di Fatima e col crocifisso rosso dei camilliani sulla veste, ogni notte nei gironi infernali di Milano raccoglieva, lavava amorevolmente, nutriva e curava barboni, clochard, sbandati, tossici e disperati, in un “rifugio” ricavato nel tunnel sotto la stazione centrale di Milano.

Non aveva tempo né per dormire, né per mangiare, tanto ardeva di compassione per Gesù crocifisso che vedeva nei suoi fratelli sofferenti, nelle loro piaghe coperte di sporcizia maleodorante.

E’ morto in fama di santità nel 2004. Sconosciuto ai salotti tv, ma conosciutissimo dai più poveri e dagli angeli di Dio (inizia ora a Milano il processo di beatificazione).

Mi è tornato in mente molte volte in queste settimane, sentendo ripetere a papa Francesco l’esortazione ai cristiani ad uscire dalle sacrestie e andare per le strade a portare la carezza del Nazareno a tutte le creature ferite dalla vita.

 

I VOLTI DA GUARDARE

 

Fratel Ettore era davvero “il prete degli ultimi”, come don Oreste Benzi, don Puglisi, padre Aldo Trento. E’ a figure come queste che occorre pensare quando si ascolta l’invito di papa Francesco a far risplendere la misericordia di Cristo nelle periferie esistenziali del mondo.

E non sono solo preti, ma anche religiosi come le suore di Madre Teresa, come suor Elvira della comunità Cenacolo, o come padre Cantalamessa che predica a migliaia di persone nei raduni carismatici, laici come Chiara Amirante, Andrea Aziani, Kiko Arguello, Paola Bonzi (quella del centro di aiuto alla vita della Mangiagalli), opere come Radio Maria (che il papa ha recentemente elogiato per la sua splendida opera) o Cometa di Como o i tanti sacerdoti che passano le ore nel confessionale (dove vorrebbe stare anche papa Bergoglio).

E poi i meravigliosi missionari sparsi ai quattro angoli del pianeta o i preti e religiosi, ancora meno conosciuti, che in tanti oratori, parrocchie, santuari accompagnano migliaia di giovani nel cammino della vita, alla ricerca del senso dell’esistenza, dell’amare, del lavorare, del soffrire.

Certo, nelle mani di fratel Ettore si trovava il rosario, non la sciarpa rossa, il sigaro e il pugno chiuso esibiti invece da don Gallo, il personaggio che i media di questi giorni osannano come “prete degli ultimi”, ovvero degli ultimi salotti conformisti.

Fu un frequentatore acclamato dei potenti salotti del pensiero dominante, che tracimano di arroganza ideologica e di bile anticattolica. Pace all’anima sua. Un prece.

Ma i funerali di don Gallo segnano la fine simbolica di un mondo, quello del cattoprogressismo degli anni Settanta.

 

UN PASSATO DA SEPPELLIRE

 

Ci sono ancora vecchi conati di cattoprogressismo, come quelli messi in pagina ieri da “Avvenire”, dove un certo De Giorgi faceva suo lo strale anticattolico per cui la Chiesa sarebbe “indietro di duecento anni”.

Ma nulla è più antiquato e ammuffito di queste ideologie clericali, relitti del secolo scorso. Dominano ancora nei giornali dove si continuano a dividere i cattolici fra intransigenti e conciliatori, fra progressisti e conservatori, fra conciliari e anticonciliari.

Tuttavia la realtà è altrove.

Perché nel frattempo la fantasia dello Spirito Santo ha portato la Chiesa nel terzo millennio e le ha donato un papa, Francesco, che non rientra in nessuno degli schemi mondani e che parla al cuore della gente.

I salotti sono sbalorditi e non capiscono. Mentre il semplice popolo di Dio e le persone comuni, affaticate dalla vita, lo capiscono benissimo. E si commuovono quando lui ripete accoratamente “Dio perdona sempre, perdona tutto, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono”.

Non a caso i confessionali, che già negli ultimi anni stavano tornando a riempirsi (e ci sono statistiche sorprendenti), hanno ripreso ad accogliere più che mai cuori e anime, lacrime e gemiti.

 

STUPORE PER FRANCESCO

 

Alcuni polemisti ideologizzati hanno fatto qualche tentativo di contrapporre Francesco a Benedetto XVI, ma si sono dovuti arrendere perché Bergoglio non fa che mostrare, da pastore, da parroco del mondo, da padre quello che papa Ratzinger – col suo limpido insegnamento teologico – aveva raccomandato alla Chiesa (basta con l’autoreferenzialità, il carrierismo, la burocrazia, la mondanità, il clericalismo).

Non solo. Fa tesoro di ciò che il predecessore ha scritto per l’enciclica sulla fede e addirittura mette continuamente in guardia dal diavolo, secondo la più autentica via della tradizione cristiana. Arriva perfino a consacrare il pontificato alla Madonna di Fatima (inorridiscono i progressisti).

D’altra parte papa Francesco sconcerta pure tradizionalisti e reazionari, quelli che si fissano nelle forme, i velluti e le formule. E – secondo la  dottrina sociale cristiana – spiazza i potenti della finanza e della politica tuonando contro le ingiustizie del sistema economico planetario, in difesa delle sue vittime.

 

FERRARA E DINTORNI

 

Allegramente sorpreso e sconcertato si è detto anche Giuliano Ferrara che – da una prospettiva “ateodevota” – pensava di aver trovato, in Ratzinger, il condottiero di una Chiesa in armi contro il nichilismo e il multiculturalismo e poi se n’è detto deluso. Giuliano non ha capito che il discorso di Ratisbona non fu un manifesto teocon, ma – al contrario – una formidabile e incompresa demolizione della “teologia politica”. Ogni teologia politica.

Forse per comprendere questo pontificato bisogna leggere proprio un libro, appena uscito, che porta questo titolo, “Critica della teologia politica” e che ha la firma del maggior intellettuale cattolico italiano di oggi, quel Massimo Borghesi, allievo e collaboratore di Augusto Del Noce, figlio spirituale di don Giussani, che ha incontrato l’allora cardinale Bergoglio attorno all’affasciante personalità di don Giacomo Tantardini, alla rivista “30 Giorni”.

Un libro, quello di Borghesi, con cui significativamente converge oggi anche la riflessione del cardinale Angelo Scola nel suo – appena uscito – “Non dimentichiamoci di Dio”.

Sono certo che il pontificato di papa Francesco saprà trarre profitto dalla ricchezza di pensiero che fiorisce in queste pagine e anche in altre parti del mondo cattolico. Che – non tema Ferrara – non si arrende al nichilismo. Solo che lo combatte con armi diverse e stavolta davvero vincenti.

 

IL PADRE

 

Papa Francesco si sottrae ad ogni schema pure nelle controversie curiali. Basti vedere il candore e la leggerezza evangelica con cui, nei giorni scorsi, ha messo fine a un’annosa diatriba fra Cei e Segreteria di Stato vaticana su chi dovesse tenere i rapporti con la politica e le istituzioni (ovviamente i vescovi, ha spiegato il papa).

Con la stessa ponderata serenità si appresta – a giugno, secondo le voci – all’avvicendamento del Segretario di Stato, che ha ormai raggiunto la scadenza del suo mandato e delle proroghe.

Si tratta certamente di un evento di grande importanza, che chiude con un passato controverso e segnerà il futuro.

Eppure tutto sta avvenendo in una luce nuova, profondamente cristiana, anche grazie alla pastorale delle omelie quotidiane in Santa Marta, dove il Papa, come parroco del mondo, ogni giorno guida il suo popolo nel cammino, alla scoperta dei tesori di Gesù. Parole semplici che arrivano al cuore sia di chi – lavorando in Curia – è lì presente e magari riscopre la sua vocazione, sia di tutti i cristiani che vi si abbeverano ogni giorno.

Anni fa Thomas Wolfe ha scritto: “Ciò che più profondamente si cerca nella vita, la cosa che in un modo o nell’altra è stata al centro di ogni esistenza, è la ricerca dell’uomo per trovare un padre. Non soltanto il padre della propria carne, non soltanto il padre perduto della propria gioventù, ma l’immagine di una forza e di una sapienza alle quali la fede e la forza della propria esistenza possano essere unite”.

Questo è Francesco per il nostro tempo. Un padre. Che poi significa “papa”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 26 maggio 2013

Vedi Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

Print Friendly, PDF & Email