L’inviato della Repubblica, Daniele Mastrogiacomo, finalmente è libero. Ne siamo tutti felici, brindiamo. Ma adesso è venuto il momento di porre una domanda scomoda: perché per salvare la vita a lui lo Stato ha trattato e per salvare quella di Aldo Moro no? E’ giusto così? La domanda va posta in maniera speciale a Eugenio Scalfari (fondatore della Repubblica), a Ezio Mauro (l’attuale direttore), a Piero Fassino, segretario del partito erede del Pci e a Massimo D’Alema, attuale ministro degli Esteri.
Perché proprio a loro? Perché la Repubblica di Scalfari e il Pci di D’Alema e Fassino furono – a quel tempo – i paladini della “fermezza” e scomunicarono tutti coloro che timidamente si azzardarono a chiedere di trattare per salvare la vita di Moro.

Non così si sono comportati nella vicenda Mastrogiacomo. Anzi, il direttore del giornale Mauro, il 15 marzo, ha lanciato un appello ai terroristi dove li si invitava proprio a dare allo stato italiano il tempo di trattare: “sappiamo che il governo sta esplorando tutte le strade… D’intesa con il governo chiedo che sia concesso tutto il tempo necessario per trovare una soluzione che consenta di giungere presto alla liberazione di Mastrogiacomo”.
Domenica in prima pagina la Repubblica titolava: “Daniele, le ore della speranza. I Taliban: passi positivi. Contatti decisivi tra Prodi e Karzai”. E ieri il sottotitolo recitava: “La Farnesina: realizzate le condizioni per il rilascio”. Insomma, la trattativa con i Talebani era assolutamente ovvia, incontestata. Sempre domenica Scalfari iniziava il suo editoriale su questo caso, ma non certo esigendo “fermezza” e chiedendo che nessuna trattativa fosse fatta dal governo. Piuttosto dicendosi “nell’attesa sempre più speranzosa ma anche tremula d’avere notizie definitivamente positive sul nostro Daniele Mastrogiacomo”.

Peccato che proprio Scalfari, nella sua autobiografia professionale, “La sera andavamo in via Veneto” (uscita nel 1986), rivendichi al suo giornale (e a se stesso) precisamente il merito storico di aver capeggiato il “partito della fermezza” ai tempi dei rapimenti delle Brigate rosse. In effetti La Repubblica ebbe da allora un ruolo politico di grande rilievo. Rileggiamo dunque le pagine dimenticate di quel libro.
Prima Scalfari polemizzava con “radicali e socialisti”, specialmente con Craxi, per aver prospettato iniziative umanitarie. Poi spiegava: “In tutti quei mesi e anzi quegli anni, ‘la Repubblica’ mantenne un atteggiamento di grande chiarezza”, uno dei cui capisaldi, scrive Scalfari, era “opporsi ad ogni negoziato con i terroristi che potesse elevarli al rango di controparte e di ‘combattenti politici’ ”. Il direttore-fondatore sottolineava: “questa doppia linea, insieme di garantismo e di non-trattativa, fu il nostro specifico contributo”.

Sappiamo come finì il rapimento di Moro. Ma Scalfari rivendica di aver continuato a tenere ferma questa linea col suo giornale e perfino di averla accentuata. Per esempio, nel gennaio 1981 le Br rapirono il giudice D’Urso minacciando la sua uccisione. “Avevano poi avanzato altri ultimatum di varia natura, l’ultimo dei quali era che un gruppo di giornali, tra i quali il nostro, avrebbero dovuto stampare alcuni testi da essi redatti…. Alcuni giornali accettarono, altri respinsero, e noi tra quelli. E poiché alle Br premeva soprattutto che fossimo noi a capitolare, rinnovarono l’ultimatum mirandolo specificamente contro di noi. Se non avessimo accondisceso alle loro richieste, saremmo stati i responsabili della morte del prigioniero”.
La situazione era incandescente. “Pannella e Sciascia” ricorda Scalfari “ci chiamavano personalmente responsabili di quanto sarebbe accaduto a D’Urso dai microfoni di Radio radicale… Nel pomeriggio arrivarono in redazione la moglie, la figlia e il fratello del giudice rapito. Chiedevano comprensione… imploravano che stampassimo quanto le Br imponevano… Li ascoltammo con rispetto e commozione dicendo che di lì a poco avremmo deciso il nostro comportamento… E fu la decisione di non pubblicare”.

Per fortuna D’Urso fu liberato, ma fu giusta quella scelta irremovibile del giornale? Certo, la Repubblica aveva tutto il diritto di prendere allora quella linea, rifiutando “di cedere un pollice al terrorismo” ed esigendo “fermezza” dallo Stato. Ed ha tutto il diritto oggi di caldeggiare la trattativa del governo con i talebani per arrivare alla liberazione del suo inviato. Sono due posizioni che hanno entrambe le loro ragioni. Ma insieme sono contraddittorie.
Si può accettare che lo stesso “giornale partito” abbia capeggiato allora il “fronte della fermezza” (quando le Br avevano nelle loro mani Moro e D’Urso), mentre se ne sia guardato bene oggi per Mastrogiacomo, caldeggiando anzi la trattativa. Ma avrebbe almeno dovuto fare una forte e solenne ammissione d’errore. Avrebbe almeno dovuto dire all’opinione pubblica – e anche ai familiari dei rapiti dalle Br – che la “fermezza” di allora fu un errore. Dove e quando è uscita questa storica ammissione di Scalfari e Mauro? Se c’è, a me è sfuggita.

Stessa cosa dicasi per il Pci con cui “la Repubblica” era in sintonia. Nello Ajello, firma storica del quotidiano scalfariano, nel fascicolo per i 25 anni del giornale, rievoca le pagine fondamentali della storia del quotidiano e un capitolo s’intitola proprio: “La fermezza”. Dice: “La contesa della Repubblica con Bettino Craxi, nuovo leader del Psi, ha inizio nella stagione del terrorismo, culminata nel delitto Moro… Il Pci si schiera sulla ‘trincea della fermezza’ nei riguardi dell’eversione. Così il giornale di Scalfari. Ai socialisti verranno a lungo rimproverati la tendenza a civettare con ‘quelli della P38’ e il ‘trattativismo’, travestito dalla ricerca d’una ‘soluzione umanitaria’ ”.

Nel caso Mastrogiacomo abbiamo il ministro degli Esteri D’Alema (simbolo della continuità col Pci) che non è stato certo estraneo all’unità di crisi: “ieri sera la Farnesina annunciava che tutte le richieste avanzate dai talebani erano state ormai esaudite”, così scriveva lunedì l’Unità (titolando la prima pagina: “Il governo: rispettate le condizioni”). Infine il segretario Ds Fassino che si è spinto oltre ed ha addirittura proposto di portare i Talebani al tavolo di pace sull’Afghanistan. Perché – ha spiegato – “la pace si fa con il nemico”. Qualche commentatore ritiene che Fassino volesse così “lanciare un doppio segnale di apertura ai rapitori di Mastrogiacomo e alla sinistra radicale interna” (evdentemente in vista dell’arrivo al Senato della discussione sulla missione in Afghanistan). Ma che fine ha fatto la “fermezza” del Pci riguardo alle trattative con le Br?
“Il Pci” ha scritto Pigi Battista “fece della ‘fermezza’ addirittura una bandiera, agitata con una perentorietà e uno zelo intransigente che non potevano ammettere dubbi o dissensi”. Oggi invece si arriva addirittura a proporre la conferenza di pace con i Talebani.
Tutti hanno diritto di cambiare idea e linea politica, ma sarebbe serio e leale motivarlo, spiegando come e perché la precedente posizione era sbagliata o nefasta. Non si può pretendere di aver avuto ragione ieri e di averla anche oggi con una scelta opposta.
Battista ricorda anche – giustamente – che “Moro che implorava la necessità di una trattativa” fu sottoposto a una crudele delegittimazione e ogni suo “accenno agli affetti familiari era equiparato a una forma degradata di familismo, frutto di una cronica, atavica, mancanza del senso dello Stato”. Si disse che non era lui che parlava. Bisognerebbe rileggersi La Repubblica, il Corriere della sera e l’Unità di quei giorni. Per fortuna nessuno oggi lo ha fatto per gli appelli lanciati da Mastrogiacomo. Ma almeno una riflessione autocritica si può chiedere?

Fonte: © Libero – 20 marzo 2007

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