Oggi si celebrano i 60 anni dei Trattati di Roma con cui, nel 1957, sei paesi del vecchio continente istituirono la Comunità Economica Europea e l’Euratom.

Quella scelta storica in Italia fu tutt’altro che pacifica e unanime. Ci fu un grande oppositore nel Parlamento e nel Paese: il Pci.

Nel dibattito parlamentare sulla ratifica dei Trattati, il partito di Togliatti fece esporre le ragioni del proprio voto contrario dall’on. Giuseppe Berti, autorevole dirigente del partito (era fra l’altro il genero di Giuseppe Di Vittorio).

REQUISITORIA

Egli spiegò che alla Cee (a quel tempo definita solitamente Mercato comune europeo) i comunisti si opponevano perché sono contro il tentativo dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l’automazione, l’energia atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro direzione”.

Berti denunciò “l’accordo sovrannazionale dei monopoli all’interno del MEC per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola economia contadina per rendere impossibile o più difficile uno sviluppo sociale democratico. Non ha perciò senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico. Ci si dice che in questa battaglia noi siamo isolati. Ma noi siamo in larga e qualificata compagnia: i lavoratori italiani, i piccoli e medi produttori economici, hanno già compreso quali gravi danni apporterà il MEC a loro e al paese. Noi non cesseremo la nostra lotta alla testa del popolo italiano”.

L’Unità in quei giorni spiegava che “la manodopera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la manodopera – a bassissimo costo – dei paesi d’oltremare” e “la ‘libera circolazione dei capitali’ significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all’altra scegliendo” quella che assicura “maggiori profitti”. Inoltre “l’eliminazione delle tariffe doganali provocherà una concorrenza molto più aspra”.

Il Pci soprattutto sottolineava il “senso antisocialista” dell’operazione.

CEE ANTICOMUNISTA

Era vero che la Cee nasceva – con il forte patrocinio americano – per consolidare l’Europa libera e democratica di fronte al blocco comunista che l’Urss aveva imposto all’Europa orientale. Per questo Pajetta definiva beffardamente “la piccola Europa” quella nuova istituzione voluta dai sei Paesi.

Si era a pochi mesi dalla sanguinosa rivolta d’Ungheria e dalla “crisi di Suez”, in un clima di scontro tra i blocchi.

Dunque il Pci, il maggior partito comunista d’occidente, si oppose alla Cee – come il Pcf in Francia – anzitutto per ragioni di schieramento internazionale.

D’altronde già nel 1948 Togliatti aveva respinto l’ipotesi di una “unione federativa europea” dei paesi democratici occidentali.

“L’internazionalismo socialista, o ‘proletario’, che rappresentava uno dei tratti costitutivi dell’ideologia e della politica dei partiti comunisti” ha scritto Giorgio Napolitano nella sua autobiografia politica “non contemplava uno specifico quadro di riferimento europeo”.

RADICI CRISTIANE

Del resto la Cee – oltreché in un orizzonte anticomunista e antisovietico – nasceva su basi culturali democratiche e cristiane (ispirata da statisti come De Gasperi, Adenauer e Schuman): dopo due tragiche guerre mondiali che avevano devastato il vecchio continente, col mostro totalitario sconfitto solo in parte – si voleva ridare all’Europa pace e libertà per il futuro.

La scelta di Roma, come luogo di “fondazione” della Cee, era un esplicito richiamo alle comuni radici spirituali e culturali dell’Europa, perché proprio il riconoscersi in quelle radici comuni poteva preservare il continente da nuove guerre e da totalitarismi.

L’opposizione del Pci fu dunque molto dura. Oggi gli eredi di quel partito tendono a dimenticarla o archiviarla sbrigativamente come un “errore” dovuto alla “guerra fredda”.

NAPOLITANO E LO SME

Eppure, ancora vent’anni dopo il Pci – che era ormai passato dalla leadership di Togliatti a quella di Berlinguer – si troverà a dire di nuovo no all’Europa, ma stavolta non con motivazioni ideologiche, bensì con buone ragioni tecniche che alla prova dei fatti si sono dimostrate giuste.

Sebbene siano state anch’esse rinnegate dai post-comunisti che – per archiviare il passato comunista – dopo il crollo del Muro si sono omologati al “pensiero unico” mercatista.

Nel 1978 si era infatti ad una svolta: l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo (Sme), un sistema di cambi fissi tra le monete comunitarie che rappresentava il primo passo verso la moneta unica europea.

Quella decisione segnava anche un cambiamento genetico della Comunità europea che, da Europa dei popoli, stava per trasformarsi in un progetto tecnocratico, laicista e antipopolare estraneo alle sue origini (il cambiamento genetico sarà poi portato a compimento con il Trattato di Maastricht del 1992 e con la disastrosa nascita dell’euro).

Dunque il 12 dicembre 1978 Giulio Andreotti, premier di un governo che aveva il Pci nella maggioranza, annunciò l’ingresso nello Sme dal 1° gennaio 1979.

Non è ancora chiaro il motivo di questa decisione improvvisa che rovesciava la precedente posizione italiana (anche se sappiamo che il governo subì grandi pressioni internazionali per entrare nello Sme).

E’ pur vero che il mondo era ancora diviso in blocchi contrapposti, tuttavia il Pci di Berlinguer era ormai nella maggioranza di governo e si era alquanto allontanato da Mosca.

Infatti le motivazioni per cui i comunisti votarono contro l’ingresso nello Sme furono molto tecniche e – bisogna riconoscerlo – sagge e lungimiranti (del resto pure il governatore di Bankitalia, Paolo Baffi, era molto perplesso, se non contrario all’ingresso).

Per il Pci fu Giorgio Napolitano a giocare un ruolo importante. Il suo intervento in Parlamento fu duro. Egli osservò che la rigidità del cambio avrebbe penalizzato “le economie più deboli” e questo avrebbe dovuto imporre dei doveri riequilibrio alle economie forti che invece ci guadagnavano.

Interessanti queste parole di Napolitano: “Inserendoci in quest’area, nella quale il marco e il governo tedesco hanno un peso di fondo, dovremo subire un apprezzamento della lira e un sostegno artificiale alla nostra moneta. Nonostante ci sia concesso un periodo di oscillazione al 6%, saremo costretti a intaccare l’attivo della bilancia dei pagamenti…. Il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita”.

MERCATISMO

L’ingresso nello Sme, fra le altre cose, nel 1981 determinò il “divorzio consensuale” fra Banca d’Italia e Tesoro che, facendo lievitare gli interessi sui titoli del debito pubblico, fece anche esplodere quel debito dal 56,8 per cento del Pil, nel 1980, al 121 per cento del 1994. E’ questa la zavorra che tanto ci ha penalizzato e che ancora ci portiamo addosso.

Iniziava da lì una nuova era: quella di una incondizionata sovranità dei mercati su stati e popoli.

L’ingresso nell’euro, di cui lo Sme era stato la premessa, con un generale peggioramento delle condizioni di vita non fece che confermare e aggravare quelle conseguenze negative che anche il Pci e Napolitano avevano paventato nel 1978 (compresa l’egemonia tedesca). Ma oggi gli eredi del Pci non rivendicano affatto di aver visto giusto.

Anzi, paradossalmente, Napolitano e gli eredi del Pci sono tra i più convinti sostenitori dell’euro e di questa Unione europea.

Il motivo è chiaro: col crollo del comunismo, la “legittimazione” occidentale è stata ottenuta dai post-comunisti a prezzo del loro allineamento al “pensiero unico”, cosa che li ha resi, in Italia, parte della Nomenklatura “affidabile” per l’establishment mercatista.

Così facendo l’establishment ha “rimosso” il loro ingombrante passato comunista, ma i compagni italiani hanno dovuto rinnegare anche le cose giuste (non molte, per la verità) di cui potevano menar vanto.

Assistiamo dunque oggi al paradosso di una sinistra post-comunista che si identifica con l’europeismo dopo averlo storicamente avversato. Ed è altrettanto dogmatica oggi nella difesa dell’euro e della Ue egemonizzata dalla Germania, quanto ieri lo era nell’avversione all’ideale europeista.

Il grande e nobile ideale dell’Europa dei popoli, unita (adesso davvero) dall’Atlantico agli Urali, purtroppo esce malconcio dagli ultimi decenni di tecnocrazia.

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Antonio Socci

Da “Libero” 24 marzo 2017

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