Un’ipotesi clamorosa. Il capolavoro di Botticelli – finora mai decifrato – è la rappresentazione di Dante nel Paradiso terrestre(i canti XXVIII-XXXXI del Purgatorio). Ogni dettaglio rimanda alla Divina Commedia. Quest’opera è una celebrazione della Chiesa Cattolica
(Nota bene: tutte le immagini citate in questo articolo sono reperibili online o al sito del Foglio, www.ilfoglio.it, in data 26 novembre 2005, a corredo del mio articolo)

botticelli-primaveraChe la “Primavera” del Botticelli, uno dei più grandi e misteriosi capolavori della storia dell’arte, sia in realtà un manifesto ante litteram del pensiero “teocon”, potrà sembrare una provocazione. In parte lo è. Ma soprattutto è una conclusione. Che deriva da una valutazione delle più recenti scoperte.
Botticelli teocon?

Quest’opera è al tempo stesso una celebrazione della Chiesa Cattolica e dell’Italia laico-umanistica (non laicista, ma laica, neoplatonica, cristiana), entrambe – la Chiesa di Roma e la Firenze medicea (oltretutto a quel tempo imparentate) – protagoniste (insieme con il mondo intellettuale ebraico) della grande impresa che fu, in quegli anni, la scoperta dell’America, ”Nuova Gerusalemme”, nuovo Eden cristiano. Impresa legata al progetto della crociata per liberare la Terra Santa dai musulmani dopo l’apocalittica caduta di Costantinopoli per mano turca (il 28 maggio 1453, una tragedia epocale sconvolgente che esporrà l’Europa all’invasione per tre secoli).
Ma andiamo con ordine. Torniamo all’opera del Botticelli. Finora questa meraviglia è rimasta enigmatica. Rolf Toman nel suo “The Art of the Italian Renaissance” (1995) scrive: “La Primavera è probabilmente uno dei capolavori più celebri, ma anche, senza dubbio, il più complicato e discusso rompicapo, fra le opere del Botticelli. Le molte sue interpretazioni e i significati attribuiti ad essa non hanno ancora fornito una soddisfacente spiegazione dell’opera stessa”.
In effetti, seppure visitato e ammirato da milioni di persone, sebbene riprodotto dovunque e conosciuto in tutto il mondo, il capolavoro del Botticelli – a cominciare dal senso del suo stesso titolo – ha celato per cinquecento anni il suo segreto. Si è presa per buona una nota del Vasari secondo cui la tavola del Botticelli rappresenta “un’altra Venere che le grazie la fioriscono dinotando la primavera” e da qui si è attinto quel titolo. Ma il contenuto e il senso dell’opera sono rimasti oscuri e indecifrati.
Alessandro di Mariano Filipepi – questo il nome vero del Botticelli – dipinse a tempera questa tavola nel 1478 per la dimora signorile di Lorenzino di Pierfrancesco dei Medici. L’opera – di metri 2,03 per 3,14 – è oggi conservata ed esposta alla galleria degli Uffizi, nel cuore di Firenze, dove ogni anno richiama un mare di turisti. Ma cosa rappresenta veramente quello strano gruppo di figure che sembrano tratte dall’iconografia greco-romana? E qual è il senso dei loro misteriosi gesti? Si potrebbe cominciare a risolvere l’enigma se si riuscisse a scoprire a quale testo letterario il pittore si è ispirato.
Non solo perché una scena così complessa presuppone un racconto, un testo letterario di riferimento, ma soprattutto perché questo è il procedimento tipico di Botticelli. In tutte le altre sue opere illustrative (e lui è il più grande illustratore) ha attinto esplicitamente alla letteratura cristiana, a quella pagana o alla novellistica. Si possono citare, come esempi, le quattro tavole di Nastagio degli Onesti ispirate al Decameron (V, 8) del Boccaccio. “Pallade che doma il centauro”, opera che pare richiamare un testo di Marsilio Ficino. La “Nascita di Venere” che viene dalle “Stanze” del Poliziano: “Giurar potresti che dell’onde uscissi / la dea premendo colla destra il crino, / coll’altra il dolce pome ricoprissi…”. Giuditta e Oloferne viene dal racconto biblico. La “Pala Bardi” è addirittura piena di citazioni scritte.
Il mistero svelato

In Botticelli il legame fra rappresentazione pittorica e fonte letteraria è strettissimo. E’ incredibile che solo per la Primavera sia rimasto il mistero e non si sia mai individuato il testo di riferimento. Tanto più incredibile perché – come la “lettera rubata” di Poe – esso in realtà era lì, in bella evidenza. Anzi, era il testo più clamorosamente sotto i riflettori della letteratura italiana e fiorentina in particolare. Di più, era il testo letterario di cui Botticelli era un cultore appassionato e l’illustratore supremo: la Divina Commedia di Dante (l’ha ossessionato per decenni e oltre alle insuperate illustrazioni pare che il Botticelli abbia redatto pure un suo commento alla Commedia[1]). Oltretutto proprio in quegli anni, in cui esce l’edizione della Commedia commentata dal Landino, i Medici a Firenze realizzano la legittimazione della loro grande operazione di politica culturale riappropriandosi di Dante e legandosi alla Firenze dell’epoca stilnovista (l’opera letteraria di Lorenzo cerca lì la sua radice): così volendo fare (e riuscendoci) di Firenze la grande capitale culturale dell’Italia e dell’Europa.
E’ veramente incredibile che per 500 anni non si sia colta questa verità, questa derivazione della tavola del Botticelli dalla Commedia dantesca che è di una evidenza solare come sottolinea Lino Lista che ad approfondire la “tesi Lindskoog” ha dedicato alcuni interessantissimi interventi (su riviste telematiche come “Episteme”).
Eppure abbiamo dovuto aspettare la solitaria intuizione (ma dovrei dire la scoperta, di pochi mesi fa) di Kathryn Lindskoog, poetessa americana, traduttrice della Divina Commedia nella sua lingua e studiosa di C. S. Lewis, specialista di letteratura medievale e rinascimentale.
La sua “scoperta” data più o meno al 2000 ed è tuttora misconosciuta e non formalizzata in un testo scientifico, circola su riviste telematiche dove è stata “approfondita” a più mani perlopiù da outsider.
E’ una scoperta clamorosa che ribalta completamente tutte le interpretazioni dominanti (a cominciare da quella che vede nella Primavera il segno del ritorno del paganesimo nel neonato Rinascimento fiorentino). E’ incredibile che si siano attardati attorno a queste e altre idee fuorvianti critici del calibro di Erwin Panofskij, Aby Warburg, Ernst Gombrich.
Ora per la prima volta si intravede la vera soluzione del mistero di questo straordinario capolavoro. La Lindskoog in un saggio apparso su “Christianity Today” ha sintetizzato così la sua idea: “La Primavera non è quel misterioso e malinconico tributo al paganesimo che comunemente si ritiene: al contrario, è un’intenzionale allegoria cristiana, ortodossa e in definitiva felice”. Si tratta infatti della “rappresentazione del paradiso terrestre contenuta nel Purgatorio di Dante, nei canti XXVIII-XXXI”.
La seconda cantica della Commedia dantesca rappresenta proprio questa transitoria regione celeste. E’ alla fine del cammino nel Purgatorio che Dante raggiunge l’Eden, il giardino dei progenitori, e qui si verificano una serie di eventi così importanti da contenere in enigma la chiave di interpretazione dell’intero poema e della vicenda dantesca. E’ quindi il luogo decisivo del viaggio dantesco, tanto è vero che qui per la prima e unica volta in tutto il poema si pronuncia il nome del protagonista e a chiamarlo per nome è Beatrice stessa, è la sua prima parola: “Dante”. E’ noto quale grande significato simbolico abbia questa “vocazione” per l’Alighieri (“quando mi volsi al suon del nome mio/ che di necessità qui si registra” Purg. XXX, 62-63). E’ un rimando diretto (ricordando il De Vulgari eloquentia) al tema della “prima lingua” di Adamo, all’Eden come luogo della lingua perduta e a Dante stesso come nuovo Adamo: identificazione che – lo vedremo – Botticelli coglie e rappresenta precisamente nel suo dipinto.
Viaggio a Beatrice

Dicevamo che nell’Eden, finalmente raggiunto (per grazia), il pellegrino Dante reincontra Beatrice, la quale è al tempo stesso il suo giovanile amore fiorentino cantato nella Vita Nova (colei che suscitò in lui la “prima parola” della poesia e così lo chiamò alla vita…”nova”), ma anche – dopo la sua morte acerba – molto di più: rappresenta infatti – come rivela la grandiosa rappresentazione sacra con cui Ella arriva – anche una figura Christi, una immagine del Verbo, della Parola eterna, della Parola creatrice del Padre attraverso la quale “tutto è stato fatto”, tutto è stato chiamato alla vita. Virgilio lo consegna a lei (e proprio qui scompare: altro passaggio cruciale).
Ecco perché Beatrice viene rappresentata come figura centrale anche al centro della tavola della Primavera. E’ la sua celebrazione. La gran parte dei critici finora aveva identificato quel personaggio con Venere, dèa dell’amore e della bellezza. Ma riconoscendo che c’era qualcosa che non andava in questa identificazione. Infatti è stato notato che si tratta in verità di una Venere davvero strana anche rispetto alle altre rappresentazioni botticelliane di questa dèa. Perché è abbigliata in modo molto casto e per nulla sensuale: il gesto della sua mano destra inoltre ricorda quello della Madonna nell’Annunciazione dello stesso Botticelli. Ebbene oggi, grazie alla Lindskoog, l’anomalia di questa Venere trova finalmente spiegazione: si tratta in realtà non della dèa greca, bensì di Beatrice.
Il pittore peraltro ha voluto creare un vistoso “effetto aureola” attorno alla testa di Beatrice attraverso il profilo rotondo delle chiome degli alberi nell’azzurrino del cielo. Richiamando così l’iconografia cristiana dei santi e di Cristo stesso.
C’è anche un clamoroso rimando iconografico: nelle illustrazioni della Divina Commedia che proprio il Botticelli realizzò in quegli anni vi è un disegno, realizzato per il IX canto del Paradiso (il cielo di Venere), che rappresenta Beatrice che guida Dante e la straordinaria somiglianza di questa Beatrice con la figura centrale della Primavera (ritenuta finora Venere) è indiscutibile: oltretutto la somiglianza è stata segnalata anni fa, prima che si conoscesse la tesi della Lindskoog, da Claudia La Malfa che è andata vicinissima alla verità[2].
Il segreto della Commedia

Indiscutibile anche la somiglianza fra la bella donna fiorita che sembra aprire la strada a Beatrice, nel quadro, e la bella donna della Divina Commedia che conduce Dante da Beatrice. Nella tavola del Botticelli è addirittura il personaggio che dà il titolo all’opera: la Primavera, colei che raccoglie (o sparge a terra) fiori. Nella Commedia si tratta di Matelda.
Anche in questo caso la somiglianza (fra la descrizione letteraria e quella pittorica) è strepitosa. I fiori sono il vero scenario sia del quadro di Botticelli che dell’Eden dantesco e non bisogna dimenticare che la metafora del “fiore” in Dante è centralissima: si identifica con Cristo (soprattutto nell’ultimo canto del Paradiso) e con Firenze (o meglio la Firenze cristiana, chiamata “Fiorenza”, che però rinnega la sua essenza pervertendosi con il “fiorino”, il denaro. Non bisogna dimenticare che la cattedrale della città, pensata proprio negli anni in cui Dante aveva responsabilità politiche è intitolata a Santa Maria del Fiore[3]). Dante dunque vede arrivare Matelda che va “cantando e scegliendo fior da fiore/ ond’era pinta tutta la sua via”. E’ l’immagine del Botticelli.
Poi Dante descrive il passo di danza della ”bella donna” fra i fiori in un modo che il pittore fiorentino sembra aver voluto rappresentare alla lettera (“come si volge con le piante strette/ a terra ed intra sé donna che balli,/ e piede innanzi piede a pena mette,/ volsesi in su i vermigli ed in su i gialli/ fioretti”).
Nella Commedia Matelda svolge una funziona di catarsi e – per quanto riguarda Dante – di introduzione a Beatrice (non a caso il suo nome letto dal fondo suona “Ad Letam”). Anche nell’opera pittorica sembra preparare la strada a Beatrice. Inoltre Dante la identifica con la primavera esattamente come Botticelli.
Dante in ben due passaggi. Appena la scorge (“tu mi fai rimembrar dove e qual era/ Proserpina nel tempo che perdette/ la madre lei, ed ella primavera”). E in un passaggio successivo dove la stessa Matelda descrive l’Eden con queste parole: “Qui fu innocente l’umana radice/ qui primavera sempre ed ogni frutto”.
Dunque la figura rappresentata da Botticelli altri non è che la Matelda dantesca. Ma viene da chiedersi a questo punto perché questo simbolismo della “primavera”? Cosa significa? Cosa c’entra con Beatrice? E chi è Matelda (annosa questione che arrovella da secoli la critica dantesca)? Ci soccorre Dante stesso. Infatti proprio nella sua opera prima, la “Vita Nova” – nella quale si preannuncia la Commedia (che ne è il compimento) – c’è un personaggio importantissimo nel XXIV capitolo: “Vidi venire verso di me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade… e lo nome di questa donna era Giovanna”, ma “per la sua bieltade… imposto l’era nome Primavera; e così era chiamata. E appresso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice”.
Dunque riassumiamo: come Matelda è una donna bellissima,
come lei ha la missione di preparare all’avvento di Beatrice e anch’essa si identifica con la Primavera che per Dante significa: “prima verrà lo die che Beatrice si mostrerrà” (e addirittura “se considerate lo primo nome suo, tanto è quanto dire ‘prima verrà’, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce”, intendendo il Precursore, Giovanni Battista).
Una fantasiosa etimologia che torna a identificare Beatrice e Cristo. Ma c’è qualche altro elemento che rafforzi l’identificazione di Giovanna-Primavera con Matelda-Primavera? Sì. La prova definitiva ce la fornisce Dante stesso. Quella Giovanna della Vita Nova era infatti la donna amata dal suo amico Guido Cavalcanti (come dice nel poemetto) e – guarda caso – i primi due versi che Dante nella Commedia dedica a Matelda (“una donna soletta che si gìa/ cantando e scegliendo fior da fiore”) sono una chiara evocazione cavalcantiana (“per prata e per rivera/ Gaiamente cantando”, “sola sola per lo bosco gìa”). Ma ancora più chiara e incontestabile è la citazione di Cavalcanti nel primo verso del XXIX dedicato a Matelda: “Cantando come donna innamorata”. E’ il verso del Cavalcanti: “Cantando come fosse ‘nnamorata”.
A proposito, perché innamorata? Dante dice che la bella donna sorride a lui in modo seducente (proprio come fa la Primavera nella tela del Botticelli) e gli mostra due occhi che al poeta ricordano quelli di Venere quando fu colpita per errore da una freccia del figlio Cupido e s’innamorò di Adone.
Sottolineo solo una straordinaria coincidenza: anche nella tela del Botticelli troviamo puntualmente Cupido che sta scoccando la freccia. E sta in una posizione centrale: precisamente sospeso sopra Beatrice. Questo incrocio di temi fra la donna di Cavalcanti, Beatrice e il tema dell’amore (Cupido-Venere), proprio nel Paradiso terrestre, scena perfettamente rappresentata dal Botticelli, è il cuore della Divina Commedia.
Gli studi più recenti hanno infatti acquisito che l’origine del poema sacro va ricercata nella polemica che oppose – a causa della Vita Nova – Dante e Cavalcanti: Guido polemizzò proprio sulla natura dell’amore (e della passione erotica) che dopo la caduta di Adamo è più forte della razionalità umana. Dante sa, anche per esperienza personale (era particolarmente passionale), che Guido ha ragione, ma risponderà con il poema sacro dove entra in scena un fattore ancora più potente che tutto riordina ed esalta: la Grazia[4].
Si può ritenere che Botticelli, acuto conoscitore della Commedia, abbia colto l’assoluta centralità di questa scena e di questo tema del poema sacro anche perché proprio attorno alla teoria dell’amore il neoplatonismo ficiniano andava plasmando, a Firenze, la nuova sensibilità umanistica.
Il dipinto è il suo vero commento alla Commedia. Oltretutto suggerisce anche il senso del nome Matelda che è da sempre oscuro e inspiegabile. Si dà il caso infatti che al tempo di Dante, prima della riforma del calendario, la prima alba successiva all’equinozio di primavera fosse il 14 marzo e quel giorno è la festa di santa Matilde, madre dell’imperatore Ottone I (morta il 14 marzo 968). Il nome Matelda rimanderebbe dunque alla primavera.
Ma c’è un altro mistero. Secondo un elaboratissimo studio di Giancarlo Gianazza e Gian Franco Freguglia, “Il riflesso di Dante nella Primavera di Botticelli”, le dita delle mani dei personaggi del quadro indicano – secondo antichi “codici digitali” – una data: 14 marzo 1319, santa Matilde. E la posizione degli stessi personaggi – identificati con i relativi pianeti – riprodurrebbe la stessa posizioni degli astri che si è verificato il 14 marzo 1319. Cosicché Botticelli avrebbe celato nella sua opera, con due diversi codici, la data che indica l’equinozio di primavera del 1319 che – secondo i due autori – è anche l’equinozio di primavera di cui parla Dante nel primo canto del Paradiso per indicare il momento della sua ascensione al Cielo (la condizione astrale è da lui descritta come particolarmente favorevole perché – con il Sole nel segno dell’Ariete – è la stessa che si verificò, per Dante, al momento della creazione del mondo e della nascita di Gesù).
Eva e Adamante

Ma non solo Beatrice, Matelda e Cupido: anche gli altri personaggi sono quelli della scena dantesca dell’Eden. Le tre ragazze botticelliane che danzano in cerchio sono la raffigurazione esatta delle tre virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) che Dante vede arrivare prima di Beatrice (“Tre donne in giro dalla destra rota/ venian danzando”). Sono il segno della Grazia portata da Cristo.
E tutta questa scena, che si legge da destra verso sinistra, è preceduta da un antefatto tragico, accaduto proprio nell’Eden, la caduta di Eva, drammaticamente rappresentata a destra da Botticelli che ci mostra la progenitrice – con un ramoscello spezzato che le ciondola dalla bocca (il frutto mangiato) – la quale viene orribilmente ghermita e “posseduta” da un nero Lucifero (erroneamente si è identificata questa scena come la ninfa Clori e il vento Zefiro, del resto, nota la Lindskoog, quel vento soffia dalla parte opposta come mostra un’altra opera del Botticelli, “La nascita di Venere”).
Inutile sottolineare che anche questa è l’esatta rappresentazione dei versi di Dante che, arrivato nell’Eden, davanti a tante delizie deplora l’errore del progenitore che “per sua difalta in pianto e in affanno/ cambiò onesto riso e dolce gioco”. E specialmente deplora “l’ardimento d’Eva” che “non sofferse di star sotto alcun velo;/ sotto ‘l qual se divota fosse stata/ avrei quelle ineffabili delizie/ sentite prima e più lunga fiata”.
Ma dopo la caduta avviene la mirabile opera della redenzione, rappresentata al centro della tavola con Beatrice-Cristo, cosicché oggi lui, Dante, nuovo Adamo può tornare in quell’Eden perduto: “…io m’andava tra tante primizie/ dell’etterno piacer tutto sospeso,/ e disioso ancora a più letizie”.
Desideroso cioè di salire al Cielo, al Paradiso. E proprio così Botticelli ce lo rappresenta con la figura finale, metà Mercurio e metà Marte (Mercurio perché domina il segno dei Gemelli che è il segno di Dante e Marte perché è il simbolo di Firenze), che racchiude in sé Dante e Adamo. Infatti Dante si pone come nuovo Adamo che, secondo la prefigurazione del De vulgari eloquentia, ritrova nel volgare illustre la lingua edenica perduta.
L’identificazione di Dante in quella figura è stata ben motivata da Lino Lista, ma è complementare all’identificazione con Adamo della Lindskoog. Botticelli rappresenta questo Dante-Adamo proprio “sospeso” e “disioso ancora a più letizie” come dice la Commedia, cioè pronto ad ascendere al Cielo. Giustamente è stato notato che la nuvoletta verso la quale si protende il personaggio di Botticelli è da sempre il simbolo della divinità, ma c’è un elemento ancor più significativo. Dante definisce il primo cielo verso il quale ascende, il cielo della Luna, proprio come “nube” cosicché si scopre che Botticelli ha voluto esattamente rappresentare questo momento.
Proprio in quel passo il poeta usa anche la metafora del diamante percorso dai raggi solari (l’uomo inondato dalla grazia) chiamandolo “Adamante”, formula che racchiude in sé i nomi di Adamo e di Dante, con un ulteriore livello semantico: “Ad Amante”[5].
Che c’entra l’America?

Dunque l’Eden. Francesco Guicciardini – che fu peraltro al servizio di due papi della famiglia Medici – fotografa così nella “Storia d’Italia” questa epoca: “Mai fino ad ora l’Italia s’è mostrata tanto prospera, né s’è trovata in una situazione così desiderabile come nell’anno di grazia 1490 e negli anni che l’hanno preceduto e seguito. L’Italia beneficiava miracolosamente della pace e della tranquillità… non era sottomessa a un qualsivoglia impero, ma soltanto a se stessa, e contava molti abitanti e una grande abbondanza di merci e di ricchezze. Inoltre era adornata dalla magnificenza di numerosi principi, dallo splendore di molte e nobili città, dalla sede e dalla maestà della religione; essa abbondava di eccellenti amministratori della cosa pubblica e di spiriti di eccelso valore in tutte le discipline e si dedicava a tutte le arti e vi s’illustrava…”,
E’ esattamente da questa Italia, soprattutto dall’alleanza fra papa Cybo, Innocenzo VIII (famiglia genovese di origine ebraica) e i Medici di Firenze, e dal loro contributo finanziario, che prende corpo l’impresa di Cristoforo Colombo come mostra il volume – appena uscito – di Ruggero Marino – dedicato al navigatore genovese[6]. Impresa concepita all’interno del sogno della crociata e grazie al patrimonio di conoscenze geografiche della tradizione ebraica. Le Indie, il Nuovo Mondo, un po’ ritrovamento della Terra promessa per gli ebrei cacciati dalla Spagna e un po’ ritrovamento dell’Eden (trovandosi proprio dove, peraltro, la cosmologia tolemaica collocava il monte del Purgatorio e l’Eden).

Antonio Socci
(ha collaborato Tommaso Lorenzini)

NOTE

[1] E’ dai disegni del Botticelli che sono derivate le incisioni, probabilmente di Baccio Baldini, le quali illustravano l’edizione della Divina Commedia commentata dal neoplatonico Cristoforo Landino nel 1481.
2 Claudia La Malfa, Firenze e l’allegoria dell’eloquenza: una nuova interpretazione della Primavera di Botticelli, Storia dell’Arte 97 (1999), pp. 249-293.
3Vedi Irving Lavin, Santa Maria del Fiore, Donzelli 1999
4 Per la diatriba Dante-Cavalcanti all’origine della Commedia si vedano le opere di Enrico Malato, Dante (Roma 1999) e Dante e Guido Cavalcanti (Roma 2004). Inoltre Ignazio Baldelli, Dante e Francesca (Firenze 1999). Sul tema della “caduta originaria” in relazione alla sessualità e alla scelta del titolo stesso del poema vedi Giorgio Agamben, Comedia, in “Paragone” n. 346 (dicembre 1978) poi in “Categorie italiane” (Einaudi).
5 Splendida spiegazione di questa metafora in Roger Dragonetti, Dante pélerin de la Sainte Face, Romanica Gandensia XI, p. 287 e ssgg
6 Cristoforo Colombo. L’ultimo dei templari (Roma 2005). Vanno citati a questo proposito anche l’altro libro del Marino, Cristoforo Colombo e il papa tradito (1991), Umberto Bartocci, America: una rotta templare (Milano 1995) e Simon Wiesenthal, Operazione nuovo mondo (Milano 1991).

Da Il Foglio, 26 novembre 2005

Fonte: AntonioSocci.it

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