E’ morta una vecchia figura, il notaio della Repubblica ed è già stato sepolto, senza cerimonie ufficiali, fra le pagine polverose della Costituzione, visitato solo dagli acari e dalle muffe.
Il vecchio caro Capo dello Stato che parlava solo con atti formali e con messaggi alle Camere ha tirato le cuoia da tempo, anzi si è trattato di un caso di eutanasia attiva, di un clamoroso esempio di riforma costituzionale senza il voto del Parlamento.
Al suo posto – ormai da anni – è subentrato un altro personaggio, insediato dalla Consuetudine, che si atteggia ora a simpatico arruffapopoli e comiziante (Pertini), ora a (meritorio) Picconatore (Cossiga), ora a predicatore retorico e fazioso (Scalfaro), ora a ostinato nonno della Patria (Ciampi).
Non è ancora chiaro quale sarà il connotato di Napolitano, ma è già evidente che pure lui si è messo su questa seconda strada: quella della loquacità (ampollosa e guardinga, assai politically correct), e dell’attivismo. Sempre più frequenti sono l’esortazione, il monito, l’invito, il commento, insomma la chiacchiera e l’interventismo.
Ieri ha ricevuto i dirigenti della Cgil celebrando il sindacato “che si identifica con i valori di libertà e di pace”, poi ha inviato gli auguri a Berlusconi (come pure a Bersani) auspicando un “dialogo costruttivo” dell’opposizione col governo.
Il giorno precedente è entrato a gamba tesa in un duro confronto sindacale proclamando che “i giornalisti hanno diritto al contratto” e poi ha intimato ai giornalisti di “mondarsi dei peccati” professionali.
Infine li ha ringraziati perché – ha detto testualmente – “senza il vostro aiuto non avrei avuto successo nella mia azione volta a portare in primo piano temi assenti dal dibattito politico come il lavoro più sfruttato e meno protetto e l’eutanasia”.

Questo secondo caso è recentissimo. Domenica scorsa rappresentava addirittura l’apertura di molte prime pagine: “Napolitano: il caso eutanasia in Parlamento” (La Repubblica).
E’ stato un intervento clamoroso. Al di là del merito del problema, stupisce il metodo.
L’articolo 87 della Costituzione afferma che il presidente della Repubblica (per problemi molto particolari e rari) “può inviare messaggi alle Camere”.
Invece Napolitano ha inviato un messaggio al signor Piergiorgio Welby. E in questa lettera a un privato cittadino prescrive al Parlamento di occuparsi del “come morire” perché “il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio”.
In realtà molti (fra cui il sottoscritto) pensano l’esatto contrario: che lo stato cioè debba solo tacere e farsi da parte su un tema così personale e intimo (pretendono di legiferare su tutto, magari tassandoci pure perché respiriamo, ci lascino almeno liberi di morire come vogliamo).
Ma al di là del merito, a che titolo Napolitano interferisce in una simile materia? Che prassi sarebbe quella che ha seguito e per la quale addirittura ringrazia i giornali?
In quale articolo della Costituzione sta scritto che il Capo dello Stato può inviare messaggi alle Camere tramite missive a privati cittadini amplificate dai giornali?
E in quale articolo si dice che il Capo dello Stato possa prendere posizione su un tema che vede, in Parlamento, posizioni contrapposte?

C’erano una volta i radicali. Per anni hanno contestato ai presidenti della Repubblica questo consueto infischiarsene delle norme scritte con un interventismo irrituale.
La loro era una posizione di principio molto meritoria.
Ma – come insegna Longanesi – guai ad appoggiarsi ai principi, perché poi si piegano.
Infatti stavolta i radicali hanno applaudito perché l’intervento del Quirinale porta acqua al loro mulino. Complimenti per la coerenza.

Ma Napolitano non si è limitato a questo. Se si considerano solo le ultime due settimane si trova una miriade di suoi interventi.
Solo su un fatto ha opposto un duro e ostinato “no comment” (come scrive Il Messaggero del 17 settembre). E cioè sulla violenta aggressione di tutto il mondo islamico contro il Papa che è stato dileggiato insultato, minacciato e perfino condannato a morte.
Si converrà che è un fatto di enorme gravità, che ha fatto clamore in tutto il mondo. E che ha rattristato milioni di italiani.
Ma il Presidente Napolitano non ha voluto pronunciare o scrivere una sola parola per esprimere – come sarebbe stato doveroso – la solidarietà del popolo italiano alla vittima di tale linciaggio e di tanto gravi minacce (che oltretutto si sono indirizzate anche a Roma e all’Italia).
Nessuno si aspettava che entrasse nel merito o rispondesse per le rime agli aggressori: si trattava solo di esternare al Papa la comprensione e la solidarietà del popolo italiano. Ma Napolitano se n’è ben guardato.

E dire che in quelle stesse ore ne ha dette di cose. Titolo della Stampa del 15 settembre: “Il presidente Napolitano: bisogna combattere gli sprechi della politica”.
Lo stesso giorno su Avvenire: “Libano, voto unanime e plauso di Napolitano”. Sul Corriere sempre Napolitano prescriveva: “ora ampie convergenze anche su altri temi”. Su qualche altro quotidiano si guadagnava un titolo con un appello al federalismo e pure con un monito sui troppi atenei “sorti negli ultimi tempi”.
Tutti interventi che – a diverso titolo – non competevano al Capo dello Stato. Mentre gli competeva esprimere il sentimento degli italiani verso il capo della Chiesa che è stato addirittura condannato a morte.
Difficile da capire dunque quell’assordante silenzio. Che certo non è dovuto a timore.
Quando fu eletto al Quirinale l’impietoso Giuliano Ferrara scrisse che lo stemma della sua presidenza doveva essere un “coniglio bianco in campo bianco”.
L’irriverente sberleffo ovviamente si riferiva alla decennale storia di Napolitano nel Pci (dove Ferrara l’aveva conosciuto bene appartenendo perfino alla stessa corrente amendoliana).
Ma sarebbe ingeneroso sospettare Napolitano, in questo caso, di timore reverenziale verso l’Islam.
Si tratta piuttosto di “prudenza politica”. Una volta i comunisti osservavano il primato assoluto della politica come religione del potere. Fu questo che nell’ottobre 1956 lo indusse a condividere la posizione del suo Pci che applaudiva i carri armati sovietici, massacratori della libertà ungherese.
E 50 anni dopo? Nei giorni scorsi Napolitano è andato proprio in Ungheria, a celebrare quei sanguinosi eventi, e la “prudenza politica” lo ha indotto a collocarsi fra coloro che “nel corso del tempo hanno saputo riconoscere la straordinaria importanza e lungimiranza di quella rivolta”.
Potenza dell’eufemismo, magia della circonlocuzione. Avrebbe potuto dire, dolorosamente e sinceramente, che era fra coloro che mentirono sapendo di mentire, fra coloro che applaudivano servilmente il tiranno sanguinario e insultarono le vittime.
Invece no. Napolitano si è messo fra coloro che “hanno saputo riconoscere”. Sia pure “nel corso del tempo”. Molto tempo.

I comunisti sono quelli che hanno sempre ragione, soprattutto oggi che riconoscono di aver sempre sbagliato. E dunque meritano in premio il Quirinale e le maggiori cariche istituzionali.
Da dove è difficile esprimere parole di solidarietà alle vittime di un’aberrante condanna a morte come quella piombata sul Papa. Eppure è certo che siano positivi i sentimenti di Napolitano, il quale sicuramente sarà come tutti noi inorridito di fronte a quell’aggressione. Ma di esprimerlo pubblicamente non se ne parla. La prudenza politica lo sconsiglia.

Fonte: © Libero – 30 settembre 2006

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