Pochi sanno che “Fratelli d’Italia”, l’inno che sentiamo ad ogni partita della Nazionale di calcio e che l’allora presidente Ciampi voleva fosse cantato dagli atleti, in realtà è solo un inno nazionale “provvisorio”. Dal 1946.

In tre legislature il Parlamento ha provato a renderlo definitivo, ma invano. Pare sia un’impresa sovrumana.

La legge 222 del 23 novembre 2012 prescrive addirittura di insegnarlo nelle scuole, ma senza averlo adottato ufficialmente: solite stranezze dell’Italia di oggi, come fare una casa cominciando dal tetto.

Adesso l’incredibile vicenda potrebbe concludersi positivamente. In questa settimana infatti la Commissione affari costituzionali della Camera esaminerà una nuova proposta di legge per l’adozione ufficiale dell’inno: è la quarta volta, si spera quella buona. Tuttavia – visti i tempi strettissimi della legislatura – non c’è niente di sicuro.

E’ un tormentone che rischia di diventare il simbolo dell’inconcludenza della politica italica e del vuoto di sensibilità nazionale. L’iter della legge – di per sé – potrebbe essere veloce, non dovrebbero esserci ostacoli politici, ma non è detto. Viviamo tempi strani.

Negli anni Novanta alcuni simboli patriottici come l’inno e la bandiera – che nei decenni di egemonia culturale marxista erano stati vergognosamente messi in cantina – sono tornati in grande spolvero perché venivano usati ed esibiti in funzione anti-Lega.

Ma oggi “il Canto degli italiani” – questo il nome ufficiale dell’inno di Mameli – potrebbe creare problemi ideologici più allo schieramento di centrosinistra e “merkeliano” che alla Lega di Salvini.

Infatti quell’inno, scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847, in pieno Risorgimento italiano, ha toni clamorosamente “sovranisti”.

L’Italia – com’è noto – è una delle ultime nazioni europee ad aver conseguito l’unità e ad aver costruito lo Stato nazionale.

E nel 1847, quando Mameli scrisse l’inno, l’aspirazione all’unità nazionale e all’indipendenza era in tutta la penisola.

Si parlava di stato federale e non si era ancora realizzato quel nefasto progetto di (unilaterale) conquista piemontese dell’Italia che poi fu la modalità storica (disastrosa) con cui l’unità d’Italia fu conseguita.

L’Inno, sia pure con l’enfasi retorica tipica di quegli anni, è tutto un proclama patriottico, un’accorata esortazione agli italiani a unirsi e a sollevarsi contro lo straniero che da secoli divideva e opprimeva la nostra patria (l’impero – solitamente germanico e austriaco – e poi specialmente Francia e Spagna).

Il testo di Mameli è un invito addirittura a combattere – memori della gloria antica di Roma – per ottenere l’indipendenza, già dai primi versi (“Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa./ Dov’è la vittoria? Le porga la chioma,/ che schiava di Roma,/Iddio la creò”).

Fin dall’inizio (dove ci si richiama a Roma, quando oggi bisogna richiamarsi invece a Bruxelles) domina la parola “Italia”.

Oggi che sembra sia provinciale dirsi “italiani”, perché dobbiamo dirci “europei”, è imbarazzante un tale inno che conserva la dolorosa memoria dei secoli in cui l’Italia è stata terra di conquista delle varie potenze europee.

Dice infatti:

“Noi fummo da secoli/ calpesti, derisi,/ perché non siam popolo,/ perché siam divisi./ Raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme:/ di fonderci insieme/ già l’ora suonò”.

E’ peraltro un’idea che riecheggia in tutta la nostra letteratura nazionale. Il tema dominante del testo di Mameli è quello della liberazione dell’Italia dallo straniero:

“Giuriamo far libero/ il suolo natio:/ uniti per Dio/ chi vincer ci puo?”.

C’è addirittura l’idea (mazziniana) che l’indipendenza e la sovranità dei popoli sia la volontà di Dio (cosa che farebbe rabbrividire i laicissimi tecnocrati europei): “Uniamoci, uniamoci,/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore./ Giuriamo far libero/ il suolo natio”.

C’è poi il riferimento storico alla battaglia di Legnano vinta dalla Lega Lombarda contro il tedesco, l’imperatore Federico Barbarossa. Fino ad arrivare all’occupante austriaco, erede di quell’impero che per secoli ha cercato di imporsi in Italia:

“Son giunchi che piegano/ Le spade vendute;/ Già l’Aquila d’Austria/ Le penne ha perdute” (il riferimento qui è alle truppe mercenarie – le spade vendute – che rendevano l’Austria debole di fronte ai popoli che combattevano per la propria indipendenza).

L’inno celebra l’Italia e l’indipendenza nazionale, ovvero tutto quello che oggi – al tempo della Grande Germania (che si fa chiamare Unione europea) – cade sotto l’accusa di sovranismo, nazionalismo e populismo.

In questi anni la pressione ideologica è stata tale che – per convincerci a cedere sovranità – si è teorizzato che il popolo italiano ha bisogno del “vincolo esterno”, cioè di dover render conto agli stranieri, perché non è abbastanza maturo da poter governare se stesso.

In realtà i nostri problemi attuali – a cominciare dal debito pubblico – sono esplosi proprio quando abbiamo cominciato a rinunciare alla nostra piena sovranità (monetaria e poi politica ed economica).

Ma davvero il simbolismo di inni e bandiere entra nella lotta politica odierna? Sì. Basti ricordare l’uso che Emmanuel Macron ha fatto dell’Inno europeo prima della Marsigliese, il giorno della vittoria (all’opposto Renzi – una volta sola, poi rimangiandosela – tolse la bandiera europea dalla sua scenografia provocando l’indignazione di Romano Prodi).

Oggi che la vera partita non è più fra destra e sinistra, ma fra sovranità nazionale ed espropriazione della sovranità (da parte dei mercati, della Ue, degli altri organismi internazionali), i simboli che richiamano alla sovranità acquistano un significato dirompente.

Anche il fatto dell’invasione immigratoria drammatizza questo problema nella sensibilità collettiva degli italiani: è infatti il sintomo del mancato controllo delle frontiere (una delle prerogative basilari di ogni Stato sovrano) e l’idea dell’invasione straniera dà la sensazione di una deriva che in pochi anno porterà allo stravolgimento (se non alla fine) dell’Italia come entità nazionale secondo la definizione del Manzoni: “Una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor”.

Il concetto racchiuso in questi versi della poesia “Marzo 1821” (ripreso anche dal Gioberti e da Cavour), ha rappresentato dal Risorgimento la definizione della nostra identità nazionale, ma cadrebbe anch’esso, oggi, sotto l’accusa di sovranismo, nazionalismo o addirittura di xenofobia.

Rileggere in questi giorni il “risorgimentale” Manzoni – pilastro della nostra cultura nazionale – fa una certa impressione: “O stranieri, nel proprio retaggio/ Torna Italia e il suo suolo riprende;/ O stranieri, strappate le tende/ Da una terra che madre non v’è”.

Allora non è in gioco solo l’adozione ufficiale dell’inno, ma la consapevolezza di una storia patria dolorosa e di una grande cultura, cioè l’identità nazionale.

Che – sia chiaro – non era intesa, né dal Manzoni, né dagli altri, in antitesi nazionalista agli altri popoli. Ma – al contrario – con un senso di fraternità.

Credo che tutti loro si sentivano appartenenti a una grande “Europa dei popoli”, ma non si sarebbero riconosciuti di certo in questa Unione europea tecnocratica che ha nella moneta unica il suo disastroso capolavoro, che schiaccia gli interessi nazionali e le diverse identità imponendo il suo “pensiero unico” e gli interessi dominanti della Germania.

Ecco dove ci portano le parole dell’inno di Mameli. Lo dobbiamo buttare? C’è di meglio?

Alla nascita della repubblica fu proposto di adottare come inno nazionale il “Va, pensiero”, tratto dal “Nabucco” di Giuseppe Verdi.

In effetti è molto più bello (e in uno storico sondaggio fu preferito dagli italiani). Ma è un’antica idea della Lega e c’è quindi da dubitare che la si adotti. Così, forse, decideranno di non decidere, anche stavolta.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 3 luglio 2017

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