I berlusconiani più esagerati? Stanno diventando quelli dell’Unità.
E’ noto che l’odio smodato è un sentimento che talora può confinare con l’amore più folle (e viceversa). E che i due sentimenti estremi possono finire per confondersi. Ebbene, la parabola dell’Unità nei confronti di Berlusconi alla fine rischia di essere proprio questa.

Il premier italiano è stato talvolta (anche di recente) paragonato, dai suoi estimatori, a un personaggio storico dell’antica Roma, Catilina, ma nessuno fra i supporter del Cav, neppure fra quelli più entusiasti, devoti e zelanti, lo ha mai accostato alla figura gigantesca di Giulio Cesare: ebbene, ieri l’Unità ha dedicato due pagine proprio a questa lusinghiera similitudine (lasciando Berlusconi sullo sfondo, ma in modo chiaro e riconoscibile).

Certo, a prima vista l’Unità sostiene che Cesare fu un grande e Berlusconi neanche gli lega le scarpe, ma già solo intraprendere questo temerario confronto appare lusinghiero per il Cav.
Inoltre gli argomenti che l’Unità usa (li vedremo) in realtà finiscono col far apparire in filigrana Cesare come un ingenuo sbruffone, quasi uno sconsiderato coglionazzo, e il Cavaliere come un arguto principe cresciuto alla raffinata scuola del Machiavelli.

Vedremo il perché. Prima però consideriamo la confezione delle due pagine che sono graziosamente titolate così: “Cesare. I tiranni finiscono facilmente per essere uccisi”.
A prima vista l’approccio potrebbe apparire alquanto inquietante. Ma non si deve pensare che nella categoria dei “tiranni”, evocata per Cesare, l’Unità intendesse includere Berlusconi.
E’ ovvio che non è così (nessun esponente del Pd qualificherebbe mai Berlusconi come “tiranno” e tanto meno il presidente Napolitano che ha sempre richiamato al dovere della reciproca legittimazione).

D’altra parte nella storia dell’Unità la categoria dei “tiranni” non è sempre stata squalificante. Bisogna considerare che questo è il famoso e storico quotidiano che ha venerato ed esaltato Stalin, il più sanguinario, potente e longevo dei tiranni, come il più grande benefattore dell’umanità.
Il giorno dopo la sua morte, infatti, il 6 marzo 1953, l’Unità uscì con questa monumentale prima pagina, rimasta negli annali: “Stalin è morto. Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”.

Seguivano pagine e pagine di encomi devoti, incensi adoranti e lacrime di dolore.
Del resto, proprio sull’Unità di ieri, esattamente dietro le due pagine su Cesare, è riprodotto un articolo di Fortebraccio, apparso sull’Unità del 24 settembre 1969, nel quale si dipinge devotamente Lenin – il primo dei grandi, sanguinari tiranni del Novecento – come il simbolo dei lavoratori di tutto il mondo e del loro riscatto sociale.
Ed è incredibile che si possa ripubblicare oggi un articolo simile senza avvertire un brivido…

Veniamo dunque a Cesare. C’erano tante gesta per cui si poteva elogiare il famoso personaggio, ma l’Unità, curiosamente, decide di esaltarlo soprattutto per quella colossale bischerata di andare al Senato a farsi ammazzare “sfidando i presagi, le statue sanguinolente e le leonesse che partoriscono per strada”. Cioè per la più grande sciocchezza della sua vita.

Secondo l’Unità qui si evidenzia la sua grandezza che lo distanzia abissalmente da quelli che considera i mediocri di oggi.
In effetti Berlusconi si guarda bene – come peraltro i suoi predecessori, da Prodi a D’Alema – dall’andare “a morire ammazzato” in Senato.
Possiamo considerarla una meschinità? O sarebbe un’idiozia il contrario? D’altronde in Senato non risulta ci sia nessuno armato di coltello (al massimo hanno il voto).

Voglio citare questa surreale tirata dello scrittore dell’Unità e mi scuso per la lunghezza e per la bizzarria dell’italiano, soprattutto per i verbi che riporto proprio come lui li ha scritti (“quale, tra quelli, avrebbero lo stesso coraggio…”).

Ecco cosa si legge sulle due pagine “cesariste” dell’Unità: “E in questo nostro declino dell’occidente quale, tra quelli che amano accentrarsi centrogravitando su di sé un così enorme potere senza alcuna dedizione, avrebbero (sic!) lo stesso coraggio, la stessa coerenza: andare in Senato a farsi ammazzare sfidando ogni presagio?
Quali di questi cialtroni dittatoriali che hanno usurpato la sua magistratura rendendola a significare solamente il potere, il suo concentramento, e l’annichilimento dei contrari a forza di olio, bastonate o televisione?
A questi pittori della distruzione come attività politica, capaci solo di cancellare la vita e la conoscenza come fossero reati, che si elevano alla sua stessa presunzione, ma senza avere nessuna delle sue glorie?”.

Vi risparmio il seguito, fatto di “dictator” e di rovesci di bile (“oramai siamo ai buffoni, puttanieri ridicoli e imbellettati”).
Cito solo la conclusione: “Cesare a certi nostri dittatori non li avrebbe portati neanche al suo seguito…”.

Dopodiché uno si chiede soprattutto questo: che male gli ha fatto la lingua italiana?
Perché trattarla così? Le parole sono importanti, gridava Moretti in un suo film.
E uno che viene qualificato dall’Unità come “scrittore” (chiedo venia, ma io non lo conosco) scrive “Cesare a certi nostri dittatori non li avrebbe portati” ?
Forse il primo modo per raccontare e migliorare l’Italia, per un giornale, è rispettare l’italiano (o sbaglio io? Mi sono perso qualche riforma della lingua?).
Forse si potrebbe parlare di politica senza sentimenti estremi, senza più rancori viscerali e immagini truculente, con un sacrosanto spirito polemico, ma senza demonizzazioni. Con realismo e magari pure ironia. Soprattutto se ne potrebbe parlare con un certo amore per gli italiani (e per l’italiano).

Fonte: © Libero – 03 luglio 2009

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