C’è una certa borghesia italiana che ha frequentato sia la “Lotta di classe” che il Salotto di classe (spesso allo stesso tempo). Ma che il Salotto continuo abbia prevalso sulla “lotta continua” è reso evidente anche da certi malinconici dettagli della cronaca.

Non a caso ieri Renato Guttuso è tornato sulle prime pagine dei giornali a causa della morte della sua Musa, la contessa Marta Marzotto, mentre non ha fatto notizia – ancorché benedetta da Giorgio Napolitano – l’esposizione (appena conclusasi) di due sue opere importanti a Milano nello spazio delle Gallerie d’Italia, per la mostra “Gramsci. I Quaderni del carcere ed echi in Guttuso”.

Eppure tale mostra esponeva i 33 manoscritti di Antonio Gramsci (dal 1929 al 1935) che Togliatti fece poi pubblicare dall’Einaudi come “Quaderni dal carcere” (in parte erano stati redatti nella clinica di Formia).

I “Quaderni” sono stati fondamentali per l’identità e la politica del Pci e per la storia culturale e politica dell’Italia.

I manoscritti gramsciani – dicevo – sono stati esposti a Milano insieme a due opere di Guttuso, “La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio” (1955) e “I funerali di Togliatti” (1972), proprio per sottolineare l’influenza di Gramsci sull’artista siciliano e quanto il politico sardo sia stato decisivo per costruire quell’ “egemonia culturale” del Pci che ancora sopravvive alla sua morte come partito organizzato.

Ugo Sposetti, presidente dell’Associazione Enrico Berlinguer, ha affermato che il pittore “raccoglie l’eredità gramsciana rappresentando nelle sue opere le idee di libertà, di lotta, di riscatto”.

Questa è la versione ufficiale (un po’ vetero-comunista). Però c’è un giallo politico proprio su una delle due opere di Guttuso esposte in questa mostra. Prima di spiegarlo va segnalato il singolare contesto di questa mostra.

TEMPIO BANCARIO

Era infatti ospitata alle Gallerie d’Italia-Piazza Scala di Intesa Sanpaolo. Dunque Gramsci e Guttuso in un ambiente bancario

Non solo. Quello fu il vero e proprio tempio della grande finanza, perché era la sede storica della Banca Commerciale di Raffaele Mattioli, il quale mantenne intatto il suo potere dagli anni del fascismo a quelli della repubblica.

Mattioli aveva raccolto nel suo mitico “ufficio studi” esponenti dell’antifascismo che costituiranno in futuro la classe dirigente laica della repubblica: da Ugo La Malfa a Enrico Cuccia e Giovanni Malagodi (in seguito pure Leo Valiani).

Mattioli è il simbolo perfetto di quel Potere che attraversa i diversi regimi e le diverse aree ideologiche.

Non a caso lui incontrava ufficialmente Mussolini e segretamente Togliatti, era discepolo e amico di Benedetto Croce, ma partecipò alla fondazione del Partito d’Azione (l’antitesi di Croce) e al tempo stesso si dette da fare per aiutare i Savoia.

Giovanni Bazoli, presidente emerito di Intesa Sanpaolo, all’inagurazione della mostra ha ricordato che fu proprio Mattioli a mettere al sicuro i manoscritti dei “Quaderni” di Gramsci, durante il fascismo, in una cassaforte della sede romana della Comit.

Una verità storica (sia pure nota da anni) che fa intravedere la commistione sorprendete e impensabile, fra le classi dirigenti, che ha riguardato profondamente anche il Pci.

Il quale è sempre stato un partito “di lotta e di governo” e anche di lotta e di salotto. Dunque non è affatto un caso che i “Quaderni” di Gramsci siano stati esposti all’antica sede della Comit. E’ anzi una scelta simbolica precisa.

Ma questo “dettaglio” da solo mostra che la realtà storica ha sfaccettature assai più ampie e misteriose di quanto l’ufficialità narri.

Ci sono ancora delle cose da capire e da scrivere su quegli anni, quei personaggi e quelle vicende. Alcuni capitoli di tale storia sono da scrivere o da riscrivere.

IL GIALLO

Uno degli studiosi che recentemente si è occupato (e ancora si sta occupando) di Gramsci e della sua opera è Franco Lo Piparo, docente all’Università di Palermo.

E’ stato proprio Lo Piparo – che fu peraltro amico di Guttuso – ad aver svelato in un breve saggetto di qualche anno fa il “giallo politico” nascosto in una delle due tele appena esposte a Milano, insieme ai “Quaderni” di Gramsci.

Si tratta di quella intitolata “La Battaglia del Ponte dell’Ammiraglio”. Lo Piparo, in un intervento pubblicato nel volume Renato Guttuso. Dal Fronte Nuovo all’Autobiografia 1946-1966”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso e Dora Favatella Lo Cascio, ricordò che Guttuso ha dipinto due volte la “Battaglia”.

La tela esposta a Milano fu dipinta nel 1955 per la scuola di formazione del Pci delle Frattocchie. Ma c’è una versione precedente, originaria, che fu esposta alla Biennale di Venezia del 1952 ed era stata dipinta nel 1951-1952: appare assai simile a quella successiva, tranne che per alcuni “dettagli” molto significativi.

Il soggetto rappresenta l’attacco che il 27 maggio del 1860 Garibaldi, con i suoi, sferrò contro le truppe borboniche al Ponte Ammiraglio, a Palermo. Simbolicamente rappresenta – come spiegò Argan – “la lotta degli eterni garibaldini contro gli eterni borbonici”.

E’ evidente dunque il significato politico, anche perché “i buoni”, cioè i garibaldini hanno la camicia rossa, mentre “i cattivi” hanno divise azzurre che tendono al nero.

Scrive Lo Piparo: “La scelta dei volti dei combattenti è coerente con lo schema resistenziale: tra i garibaldini sono raffigurati, tra gli altri, Luigi Longo, Giancarlo Pajetta, Antonello Trombadori, il combattente della guerra di Spagna, Carlos, Guttuso medesimo con una sciabola insaguinata in mano; figura come borbonico il traditore Vittorini raffigurato mentre un garibaldino (allusione a Togliatti?) gli taglia la faccia con una sciabolata (‘perdere la faccia’: allusione al presunto smascheramento del presunto voltafaccia di Vittorini?)”.

C’è però un dettaglio eterodosso. La figura centrale di questa tela originaria, quella del ’51-’52, non fa parte dei due schieramenti contrapposti, ma è “un carrettiere, scivolato morto a terra dal suo carretto distrutto dai due eserciti e col frutto del proprio lavoro (le arance che fuoriescono dalla cesta) disperse”.

Spiega Lo Piparo: “Il carratteriere morto ammazzato non è né garibaldino-comunista né borbonico-fascista. È un borghese che si trova sul Ponte Ammiraglio non per combattere ma per fare commerci. È — la interpretazione non può essere diversa — la società civile e mercantile che ha difficoltà a riconoscersi nell’uno o nell’altro schieramento ideologico”.

Per Lo Piparo già questo dettaglio suggerisce “una nascosta (inconscia?) messa in discussione dello schema manicheo dei buoni garibaldini rossi che contrastano i cattivi borbonici neri”.

Ma c’è un ulteriore dettaglio clamoroso: “Con quale volto dipinge il borghese vittima, innocente e neutrale, delle due ideologie contrapposte? Con la propria, quella di Renato Guttuso!”. Evidentemente c’era una battaglia anche nell’interiorità dell’artista ed emerge nonostante le sue “dichiarazioni programmatiche”.

Osserva Lo Piparo: “il fatto che non è chiaro nel quadro chi abbia colpito a morte il carrettiere suggerisce che sia stato vittima di entrambi gli eserciti. Renato Guttuso, raffigurandosi sia come garibaldino che come carrettiere, esibisce un sentire problematico che rende ancora intellettualmente e politicamente godibile la ‘Battaglia’ del 1951-52”.

Ovviamente nella “Battaglia” ridipinta tre anni dopo per il Pci – quella esposta a Milano – spariscono il carrettiere e le arance, “sostituiti con un’enigmatica figura di un cavaliere disteso a terra morto e sovrastato insieme col suo cavallo morente dalla bandiera borbonica”.

Il cavaliere non appartiene a uno dei due schieramenti e “non è chiaro se sia ancora Renato Guttuso”. Una “riscrittura” politicamente corretta.

Ma il contrasto fra le due tele evidenzia il conflitto tra l’ufficialità di un’appartenenza ideologica e la complessità insondabile dell’anima di un artista. Più grande della “lotta” e dei “salotti”.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 31 luglio 2016

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