“Va bene, parlate di ricerca, dell’importanza della ricerca universitaria, dei ricercatori, ma, oltre a cercare, c’è qualcuno che trova?”. L’irriverente battuta di Vittorio Feltri a Matrix, venerdì sera, sarà stata urticante per tanti che lavorano nelle nostre università. E al momento ha lasciato interdetto anche me.

Però, riflettendoci, bisogna riconoscere che sarebbe una vera “rivoluzione” se chi ricerca trovasse. Pare l’uovo di Colombo. Ma sarebbe la “rivoluzione”: fare in modo che chi ha le qualità e l’intelligenza per “trovare”, abbia anche cittadinanza e fondi nella ricerca universitaria. A volte terreno di pascolo di baroni o di inconcludenti da accantonare. E’ vitale poter valorizzare la più importante delle nostre risorse, l’intelligenza. Farla tornare in Italia se è espatriata. Che a “trovare” non sia spesso chi ricerca nelle università è innanzitutto una verità storica. Molte delle più importanti scoperte moderne sono sbocciate fuori dalle università, spesso da outsider che hanno lavorato con pochissimi mezzi e che gli accademici parrucconi – quelli che disponevano di tanti mezzi – guardavano dall’alto in basso.
Il caso più clamoroso, quello che ha letteralmente rivoluzionato la scienza moderna e ha dato il via a una nuova epoca ha un nome: Albert Einstein. Nel 1905, quando riuscì a far pubblicare sulla rivista “Annalen der Physik” i due saggetti che avrebbero rivoluzionato la storia della scienza, Einstein aveva 26 anni, era stato bocciato al primo esame di ammissione al Politecnico di Zurigo, aveva vissuto facendo supplenze di matematica negli istituti tecnici, finché aveva avuto un’assunzione provvisoria come modesto impiegato all’ufficio brevetti di Berna.
In quelle poche pagine di fisica teorica (il secondo studio era di tre paginette), che hanno demolito tante antiche concezioni, c’era gran parte di quello che poi sarebbe stato scoperto sperimentalmente nel corso del Novecento. Non era solo prevista la possibilità di trasformare la materia in energia (l’energia nucleare, poi ricavata nei laboratori e non solo). La teoria generale della relatività di Einstein “implicava che l’universo deve avere avuto un inizio e che dovrà forse avere una fine” (Hawking), cosicché si scoprirà che l’universo è in espansione e che alla sua origine sta il cosiddetto Big bang, il momento in cui, circa 15 miliardi di anni fa, hanno avuto inizio il tempo e lo spazio, da un minuscolo “punto” dotato di inaudita energia. Costo di quella ricerca pubblicata nel 1905? Praticamente zero. Però è anche giusto riconoscere che il lavoro di Einstein non sboccia dal nulla, ha progenitori come Lorentz, Poincaré, Maxwell.

Per tornare alle grandi ricerche e alle grandi “trovate” che hanno cambiato la storia, il primo computer di tutti i tempi non fu pensato, progettato e costruito in qualche meraviglioso istituto di ricerca delle grandi università americane o europee, ma, con esigui mezzi personali, dal giovane, sconosciuto Zuse Konrad, nel soggiorno di casa sua, al numero 7 di Methfellstrasse, a Berlino. E quando provò a rendere noto il suo lavoro, dopo il 1945, fu a lungo snobbato, con sufficienza, dal mondo accademico. Un altro nome di straordinaria importanza fu quello del matematico Alan Mathison Turing. Anche l’italiano Federico Faggin, che nel 1971, con due collaboratori, realizzò il primo microprocessore, inaugurando l’età dei personal computer, lavorava per una società americana, non faceva ricerca in università.
Ma, andando indietro negli anni, fra gli outsider della ricerca applicata va ricordato il nostro Guglielmo Marconi che da “autodidatta” e con i fondi del padre, a casa, iniziò le ricerche e arrivò ai suoi grandi risultati – che avrebbero spalancato al mondo l’epoca della radio, della Tv (e perfino dei cellulari) – senza trovare interlocutori in Italia. Dovette espatriare. Così conseguì pure il Nobel per la Fisica (più tardi fu molto omaggiato in Italia durante il ventennio).
Si potrebbero ricordare anche il padre scolopio Eugenio Barsanti, inventore del motore a scoppio che cambiò davvero la vita di tutti e altri due italiani di genio, Antonio Meucci e Innocenzo Manzetti, per vie diverse “inventori” del telefono: tutti ebbero dolorose disavventure e controversie per i brevetti registrati da altri (pure Antonio Pacinotti, inventore della dinamo-motore, dalle enormi ricadute tecnologiche e civili, ebbe questa amara sorte).
Pare che il popolo italiano sia destinato a sfornare intelligenze geniali che però non vengono valorizzate nelle istituzioni del sapere e della ricerca. Né vengono protetti i risultati del loro genio.
E’ vero che uno dei nostri scienziati più grandi, Enrico Fermi, poté realizzare le sue ricerche e le sue scoperte grazie all’università italiana (di cui rappresenta il simbolo) e nei laboratori universitari, ma – nella tragedia di un regime come quello fascista – finì anch’egli per emigrare, portando il suo genio oltre atlantico.

Da tutta questa storia ricaviamo due conclusioni. La prima: per la ricerca i soldi sono un ingrediente importante, ma senza l’altro ingrediente (il principale: l’intelligenza, la capacità), i fondi sono inutili. Bisogna fare dunque in modo che i due elementi si combinino, che i fondi non diminuiscano, ma vadano a chi vale e che baronie e sprechi vengano penalizzati.
E questo dovrebbe indurre il governo – è la seconda conclusione – a capire che il criterio da adottare per il necessario riordino universitario (gli sprechi sono stati tanti) non è il taglio indiscriminato, ma quello selettivo. Bisogna premiare il merito e puntarci seriamente, perché senza scommettere su scuola, università e ricerca nessun Paese ha un futuro (tanto meno l’Italia).

Abbiamo parlato solo della ricerca scientifica. Ci sarebbero pure le scienze umane. E qui si aprirebbe un altro lungo capitolo, egualmente importante per un Paese che ha nei Beni culturali il suo petrolio. Nella nostra università non hanno avuto una cattedra né Benedetto Croce, né Federico Zeri. Ma tanti “cattivi maestri” sì. Cambiare è indispensabile, ma occorre un grande progetto educativo, non la fretta del “fare cassa” (magari per tenere in piedi l’Alitalia).

Fonte: © Libero – 26 ottobre 2008

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