Ieri si celebrava il 25 aprile. Nella mia famiglia, per motivi storici, è davvero una festa della liberazione. Così avrei voluto scrivere su Twitter: viva l’Italia libera e indipendente dall’occupante tedesco.

Ma – mi sono detto – qualcuno potrebbe accusarmi di “sovranismo”? Si può ancora sventolare il tricolore e parlare di indipendenza nazionale e di occupanti tedeschi? Si può ancora rivendicare la sovranità degli italiani? Oppure è diventato disdicevole parlare di “patria”, di “indipendenza” e di “libertà”?

Non siamo forse nel Paese le cui élite hanno teorizzato da qualche decennio la necessità del “vincolo esterno” (cioè di stranieri che ci danno ordini) perché quello italiano – a loro dire – sarebbe un popolo incapace di governarsi da solo?

Eppure quando è stato libero di governarsi quello italiano è stato il popolo del “miracolo economico”. Dopo le rovine della Seconda guerra mondiale abbiamo fatto stupire il mondo.

Come, perché e quando abbiamo perso l’identità, l’orgoglio e la fiducia in noi – perdendo poi gran parte della sovranità – è una storia che sta cominciando a emergere, ma che aspetta ancora di essere scritta.

Fatto sta che oggi ci troviamo obbligati ad “appartenere” politicamente e monetariamente – come sudditi – a quella “Grande Germania” che si fa chiamare “Unione europea”.

Ma dobbiamo cedere anche l’identità oltre alla sovranità? Possiamo ancora dirci figli della storia, della cultura e civiltà italiana o dobbiamo diventare tutti figli della Troika (Fmi, Bce e Commissione europea), come l’euro – riducendoci con le pezze al culo – sta facendo diventare i diversi popoli europei?

La Gran Bretagna ha detto no. Ha rivendicato la propria identità e indipendenza e ha mandato al diavolo la Ue. Ma la Francia pare ormai arrendersi.

IL CASO MACRON

Il caso emblematico oggi è proprio quello di Emmanuel Macron, il candidato all’Eliseo dell’establishment globalista, della Merkel e della troika.

Essendo l’uomo su cui punta il potere finanziario internazionale (sostenuto dal “pensiero unico” dei media), Macron – come il denaro e la finanza – è apolide, liquido, senza identità e nemico di tutte le identità, senza frontiere e nemico di tutte le frontiere.

La casta globalista è per l’emigrazione di massa cosicché i popoli diventino come le merci e siano sottoposti alle supreme leggi del mercato, ponendo la manodopera in concorrenza l’una con l’altra al fine di abbassarne sempre più i costi, cioè i salari (“esercito industriale di riserva” diceva Marx).

Si delocalizzano le industrie o si delocalizzano i popoli con la stessa logica ed è per questo poi che la classe operaia vota Trump o Le Pen e i salotti finanziari votano Clinton o Macron.

E’ il mondo come lo vuole la grande finanza, che si è mangiata l’economia reale e che impone la sua sovranità sugli stati e sui popoli, condannando come “nazionalismo” e sciovinismo la sovranità nazionale di ogni popolo.

Macron è arrivato a dire: “Non esiste una cultura francese, esiste una cultura in Francia, essa è diversa, essa è molteplice”.

Alain Finkielkraut, una delle migliori intelligenze in circolazione, ha colto l’enormità di questa sparata rivelatrice: “Tra ‘francese’ e ‘in Francia’, vi è la distanza che separa una nazione da una società multiculturale. In nome del progresso, Emmanuel Macron ci invita a fare questo passo. Invece di preoccuparsi della disintegrazione francese che si sta verificando sotto i nostri occhi, lui l’accompagna, la teorizza”.

Così, continua Finkielkraut, “la Francia non è più una storia, non è più nemmeno un paese, è un mero spazio. Lo spazio-Francia accoglie la diversità e su questa diversità di gusti, di pratiche, di musiche, di origini, nessuna anteriorità primigenia deve prevalere, nessuna gerarchia ha il diritto di porsi. Tutto è uguale e dal momento che tutto è diverso, tutto è lo stesso”.

Macron appartiene a un’ideologia e a una casta dominante per cui non esistono più la Francia, l’Italia, la Spagna o la Grecia, ma meri spazi geografici che sono uniti solo da una moneta unica e dalle direttive di Bruxelles.

Spazi senza frontiere, senza storia, senza cultura e senza identità, spazi che possono essere riempiti con qualunque cosa si voglia, con qualunque cultura o religione e con qualunque massa umana serva all’economia, magari “importata” – via emigrazione – come le merci.

COME METTERNICH

Se applichiamo questa “filosofia” all’Italia ne ricaviamo esattamente la sciagurata frase che il Metternich – con gelo teutonico – pronunciò sull’Italia del primo ‘800 che, a suo dire, era “solo un’espressione geografica”.

La sua frase esatta è ancora più chiara: “La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”.

Quegli “ideologi rivoluzionari” erano i nostri patrioti, che oggi sarebbero bersagliati dai media come “sovranisti”.

Siamo tornati al Metternich. La Francia, come l’Italia è un’espressione geografica, anzi “uno spazio”. Uno spazio vuoto. Senza una nazione, senza un’identità, senza una storia e una cultura.

E allora, se permettete, oltre a far mio lo slogan “ora e sempre Resistenza”, mi viene voglia pure di riproporre l’inno nazionale italiano, quell’inno che ci ricorda la retorica polverosa dell’Italia scolastica, ma che ora suggerisco di rileggere alla stessa Italia laica e risorgimentale.

LA NOSTRA STORIA

Perché sarà musicalmente brutto e letterariamente enfatico, ma è tuttora l’inno nazionale e si porta addosso la nostra storia. Che oggi è diventata innominabile, quasi da mettere al bando.

Eccolo qua: “Fratelli d’Italia,/l’Italia s’è desta, /dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa./ Dov’è la Vittoria?/ Le porga la chioma,/ che schiava di Roma/ Iddio la creò”.

Già evocare Dio nel 2017 suona politicamente scorretto, per le tecnocrazie laiciste dell’Unione, ma anche richiamarsi a Roma anziché a Bruxelles farà rabbrividire. E pure lo slogan bellicoso: “l’Italia chiamò”.

Vorrei inoltre ricordare l’esortazione all’orgoglio nazionale e alla ribellione patriottica che è contenuta nelle altre strofe dell’inno: “Noi fummo da secoli/ calpesti, derisi,/ perché non siam popoli,/  perché siam divisi./ Raccolgaci un’unica/ bandiera, una speme:/ di fonderci insieme/già l’ora suonò”.

Tenete a mente che fummo per secoli “calpesti e derisi” dagli stranieri. Poi il nostro inno nazionale chiama alla lotta per l’indipendenza – udite udite – perché la libertà e la sovranità dei popoli è volontà di Dio: “Uniamoci, uniamoci,/ l’unione e l’amore/ rivelano ai popoli/ le vie del Signore./ Giuriamo far libero/ il suolo natio:/ uniti, per Dio,/ chi vincer ci può?”.

Quindi c’è l’orgoglio dell’essere italiani coraggiosi nella lotta per l’indipendenza nazionale: “Dall’Alpe a Sicilia,/ Dovunque è Legnano;/ Ogn’uom di Ferruccio/ Ha il core e la mano”.
Infine due paroline contro l’occupante austriaco (il mondo tedesco da secoli coltiva l’ambizione imperiale): “Son giunchi che piegano/ Le spade vendute;/ Già l’Aquila d’Austria/ Le penne ha perdute”.

Si riferisce qui alle truppe mercenarie – le spade vendute – che rendevano debole l’Austria, rispetto ai popoli che combattevano per la propria libertà.

RISORGIMENTO

In Europa c’è aria di un nuovo e vero Risorgimento delle nazioni? Di sicuro dilaga lo scontento e la rabbia dei popoli.

E di sicuro la Russia (che si è sottratta all’ipoteca del Fmi) e gli Stati Uniti con Trump, hanno riscoperto la dimensione patriottica e l’interesse nazionale come bussola della politica.
Anche se in Francia vincerà Macron, in Europa è possibile che – sotto i colpi della crisi e dell’invasione migratoria – si risveglino i popoli.

Così forse, nel giro di qualche anno, potrà essere spazzata via la venale Ue che porta alla miseria, per ricostruire una vera Europa dei popoli. Sarebbe bello, ma farcela sarà molto dura.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 26 aprile 2017

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Twitter: @AntonioSocci1

 

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