“Identità nazionale” oggi sembra essere diventata un’espressione tabù per i salotti intellettuali. Perfino la parola “Italia” è diventata sospetta.

Eppure l’amore per la nostra identità e l’orgoglio per la grande storia dell’Italia e la sua bellezza incomparabile, vibrano nel meglio della nostra cultura.

La Feltrinelli ha appena pubblicato una raccolta di scritti di Giorgio Bassani, “Italia da salvare (Gli anni della presidenza di Italia Nostra 1965-1980)”. Sono gli interventi dello scrittore ferrarese come fondatore e presidente di “Italia Nostra”.

Prendo spunto da una delle citazioni iniziali del libro: L’Italia è un Paese sacro non soltanto per noi, ma per il mondo intero. Il mondo è diventato moderno perché la storia è passata veramente di qua; ne abbiamo le prove sparse in tutto il territorio. Bisogna che noi, per noi stessi innanzi tutto, ma anche per il mondo intero che deve aiutarci, riusciamo a salvare, a conservare il patrimonio artistico e naturale italiano.”

Altri pensieri dello scrittore: “siamo dei conservatori, perché siamo dei progressisti”; “è vero o no che il mondo, da antico è diventato moderno proprio grazie all’Italia e alla sua storia?”.

C’è una tripla affermazione: la sacralità (una sacralità cattolica e laica) del nostro Paese, come cuore della civiltà, l’idea che il vero “progressismo” – in un Paese come questo – sia “conservatore” di un immenso patrimonio identitario e il richiamo alla responsabilità che abbiamo – verso l’intera umanità – di difendere e amare questo tesoro chiamato Italia.

Come Bassani usava la parola “conservatori” anche Guido Ceronetti – nel suo memorabile “Un viaggio in Italia” – negli stessi anni: Che cos’altro si può essere in un Paese come questo se non disperatamente conservatori?”.

E affastellava oniricamente la miriade di luoghi dell’anima italiana che occorreva amare e difendere, a volte anche cose minime come i muretti a secco delle campagne.

Finché esisteranno frantumi di bellezza” osservava Ceronetti “qualcosa si potrà ancora capire del mondo. Via via che spariscono, la mente perde la capacità di afferrare e di dominare. Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non-pallido aiuto alla pensabilità del mondo”.

Sempre in quegli stessi anni il verbo “conservare” risuonava negli scritti di Pier Paolo Pasolini.

La sua ultima poesia in friulano, del 1975, si rivolge a un immaginario “giovane fascista” (in quegli anni era una bestemmia per un intellettuale di sinistra), lo considera ignorante di politica, uno che cerca “solo di difendere il latino e il greco contro di me, non sapendo quanto io ami il latino e il greco e i capelli corti”.

Ma gli rivolge “un discorso che sembra un testamento” anche se “io non mi faccio illusioni su di te”.

Quello di Pasolini è un accorato appello alla difesa di un’identità spirituale millenaria che è legata anche agli oggetti di uso quotidiano della civiltà contadina italiana:

“Difendi i paletti di gelso, di ontano… muori di amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, le vasche del letame abbandonato. Difendi il prato. I casali somigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza santa. Difendi, conserva, prega!”.

Viene in mente un altro volume intitolato “Dolce Patria nostra. La Toscana di Piero Calamandrei”. Chi conosce questo grande intellettuale antifascista – che fu tra i più importanti padri costituenti – sa che per lui in realtà la sua Toscana è una metafora dell’Italia, è “l’Italia dell’Italia”.

E sa pure quale struggente passione per la nostra terra Calamandrei vivesse, contagiando in favolose gite domenicali, come pellegrinaggi laici – negli anni Trenta e Quaranta – per i borghi, le abbazie e le chiese, i più grandi intellettuali del suo tempo (a partire da Benedetto Croce).

Nel suo memorabile discorso all’Università di Firenze, pronunciato il 15 settembre 1944, subito dopo la liberazione della città, ricordando i giorni tragici appena trascorsi, accosta l’angoscia per la sorte delle persone care all’“assassinio premeditato delle nostre città, dei villaggi, delle nostre campagne, perfino del nostro paesaggio”.

E spiega: “Voi lo sapete: in Italia e specialmente in Toscana, ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina, ha un volto come quello di una persona viva: non vi è curva di poggi o campanile di pieve che non si affacci nel nostro cuore col nome di un poeta o di un pittore, col ricordo di un evento storico che conta per noi quanto le gioie o i lutti della nostra famiglia”.

Memorabili sono le commosse parole di Calamandrei per la “Madonna del parto”, il capolavoro di Piero della Francesca conservato nel paesino di Monterchi, che temeva fosse in pericolo nel passaggio del fronte.

I pensieri del giurista riecheggiano il geniale articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Dove si esprime la consapevolezza che il favoloso paesaggio italiano è la prima e la più grande delle opere d’arte, creata dal lavoro collettivo di generazioni, dalla loro intelligenza, dalla loro fatica, dalla loro spiritualità.

Nel suo discorso di Londra del 1951 Calamandrei lamentò l’immane disastro della guerra per un Paese come l’Italia e spiegò che da giurista trovava “inadeguata e goffa” l’espressione “patrimonio artistico” perché “patrimonio” si riferisce “ai beni materiali, all’avere… ma invece le opere d’arte riguardano l’Essere, la civiltà, lo spirito di un popolo”.

E considerando le immense rovine della guerra e le razzie fatte per secoli in Italia dagli eserciti stranieri, concluse, con franchezza fiorentina, che “per ristabilire l’amicizia europea, sarebbe bene che prima di tutto i ladri restituissero la refurtiva”.

Oggi potrebbe essere guardata in cagnesco come un’affermazione sovranista. Ma è semplicemente amore per l’Italia, difesa dei nostri diritti e della nostra identità nazionale.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 21 maggio 2018

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