Il problema è l’uso politico della paura. Perché oggi, padrona incontrastata della scena pubblica e dei sentimenti privati, è la paura della pandemia, del contagio, di questo nemico invisibile e feroce che si può nascondere dovunque e d’improvviso può assalirti e condannarti in poche ore a una morte atroce, solo come un cane.

Una paura di tutto un popolo (e di quasi tutto il mondo) come mai si era vista serpeggiare fra la gente. Ma, attenzione, c’è un’operazione politica in corso in Italia che fa leva proprio su questa ansia collettiva.

La tentazione del potere di usare la paura c’è sempre stata, come spiegava anni fa Zygmunt Bauman:

“Di sicuro la costante sensazione di allerta incide sull’idea di cittadinanzanonché sui compiti ad essa legati che finiscono per essere liquidati o rimodellati. La paura è una risorsa molto invitante per sostituire la demagogia all’argomentazione e la politica autoritaria alla democrazia. E i richiami sempre più insistiti alla necessità di uno stato di eccezione vanno in questa direzione”.

Queste parole di Bauman fanno pensare all’Italia oggi alle prese con l’epidemia da coronavirus. Continua

Ma esiste ancora un centrodestra unito? A parte le elezioni, nelle quali i tre partiti si presentano insieme, normalmente non c’è traccia di prese di posizione comuni o di “vertici” che diano la percezione dell’unità di intenti. Ognuno va avanti per suo conto. In ordine sparso e spesso conflittuale.

Del resto le stesse elezioni regionali, a causa delle candidature, sono ormai al centro di polemiche fra i tre partiti e fanno presagire spaccature. Per non dire degli incredibili smottamenti dentro Forza Italia dovuti ai cosiddetti “responsabili” che – a sentire le cronache – pare siano pronti ad arruolarsi per puntellare l’attuale governo devastante e fallimentare.

Questo eventuale, ennesimo affronto agli elettori farebbe tristemente riflettere su come vengono scelte le candidature. A questo proposito più che ridurre il numero dei parlamentari – secondo la balorda idea grillina – bisognerebbe alzare la qualità dei parlamentari stessi (da questo punto di vista tutti stanno messi male e il M5S peggio). Continua

Questo è il tempo dell’antagonismo fra democrazia e aristocrazie. Dopo i guasti immensi della globalizzazione, in Europa e in America, con cui il Mercato (o il “mercatismo” come dice Tremonti), dagli anni Novanta ha dettato legge e ci ha portato alla crisi del 2007-2008 (e al disastro delle migrazioni di massa), i popoli (impoveriti)  cercano – col voto – di difendersi e darsi governi rappresentativi dei propri interessi.

Ovvio che le élite, vecchie classi dirigenti, soprattutto degli apparati tecnocratici pubblici e del mondo economico, non intendano mollare la presa sul potere politico. 

Nasce da qui la ricorrente delegittimazione del suffragio universale nei salotti del potere e sui media, insieme alla costante apologia dei “competenti” (i cui “successi” paghiamo salatamente).

Abbiamo visto negli Stati Uniti cosa significa vincere col voto degli elettori contro le aristocrazie: Trump, pur avendo superato il Russiagate, è ancora alle prese con un Deep State che è sempre una grossa zavorra per l’azione di governo.

Anche in Gran Bretagna si cerca in tutti i modi di annacquare o perfino di rovesciare il risultato del voto popolare nel referendum sulla Brexit.

Una conferma arriva pure dalla Francia dove – imparata la lezione – l’aristocrazia è corsa ai ripari anticipando la disfatta dei socialisti nelle urne e costruendo un suo candidato trasversale che ha facilmente prevalso sulla Le Pen, ma che resta un presidente di minoranza, non rappresentativo del Paese, come dimostra la sollevazione popolare in corso.

Il caso francese – peraltro – dovrebbe insegnare a Salvini e alla Lega che si vince non schiacciandosi a destra, ma al centro, con una forza ecumenica e centrista, un “partito della nazione” come era la Dc.

Per l’Italia, dal 2018, la partita è complessa perché al governo sono andate due forze fra loro antagoniste, ma accomunate da una certa avversione alle élite.

Come affrontare la nuova situazione? La prima virulenta risposta delle élite è stata il bombardamento a tappeto da parte dei media  contro questo governo fin dalla sua gestazione: non si è mai visto nulla del genere nella storia italiana.  

Una volta nato il governo, con i sondaggi – e le elezioni amministrative in varie regioni – che hanno continuato a dare livelli altissimi di consenso per i due partiti (ma ribaltandone i rapporti di forza), l’establishment ha cominciato a cercare un modo per disarticolare la maggioranza e stabilire un dialogo con uno dei due “soci” di governo.

C’è stato un momento, all’inizio dell’anno, in cui hanno pensato, anche in Europa, di poter fare affidamento sullaLega. E’ stato quando il M5S ha preso le sue posizioni estreme sulla Tav, sul Venezuela, sul reddito di cittadinanza e poi ha voluto varare la “via della seta” cinese.

L’idea che la Lega – che fra l’altro veniva data dai sondaggi costantemente sopra al 30 per cento – fosse la parte della coalizione gialloverde con cui si poteva tentare un dialogo (perfino riconoscendole una leadership di governo col centrodestra, che ne annacquasse l’antieuropeismo) era rafforzata dalla buona amministrazione delle grandi regioni del Nord, dalla sua passata esperienza di governo, dalle sue posizioni realistiche e occidentali su Tav, Venezuela e “via della seta”.

Oggi, però, pare che le strategie si siano rovesciate: sembra che l’establishment stia puntando sul M5S con la prospettiva – secondo alcuni – di un nuovo governo tecnico, dopo le europee, magari guidato dall’attuale governatore della Bce, Mario Draghi, e appoggiato da PD, M5S e “volenterosi” vari.

Naturalmente non sarebbe un governo Pd-M5S, che al momento  tutti escludono, ma un governo tecnico che si renderebbe necessario per la solita emergenza spread  e per varare la finanziaria.

In realtà oggi tutti, giornali e partiti, parlano di elezioni certe in caso di crisi e si pubblicano sondaggi ottimi per la Lega, ma probabilmente Salvini sospetta che lo si voglia così spingere ad aprire la crisi di governo per poi rifilare all’Italia – appunto – un governo Draghi.

Resta da capire come e perché – anche a livello dell’establishment europeo – si è rovesciata la strategia preferendo puntare sul M5S piuttosto che sulla Lega?

Le ragioni sono tre. La prima è l’inconsistenza politico-ideologica del M5S, una nebulosa facilmente egemonizzabile e facilmente usabile dal “partito del mainstream”, in vista di un riassorbimento del suo elettorato da parte del PD.

La seconda è il cambio di passo del M5S dopo le batoste elettorali alle amministrative. A causa del ribaltamento di forza a favore della Lega, Luigi Di Maio ha cominciato a bombardare quotidianamente Salvini e contemporaneamente a lanciare segnali “di sinistra” verso il PD e segnali “europeisti” verso l’establishment della UE, arrivando addirittura a cercare un dialogo con il Ppe della Merkel.

La terza ragione sta in alcuni errori tattici e strategici della Lega di Salvini: la ricerca di alleanze europee a destra, episodi come il convegno di Verona che ha finito per essere un grosso boomerang per la Lega, lo spiazzamento dovuto ai quotidiani attacchi dell’“alleato” di governo che induce spesso i leghisti a risposte non ponderate o controproducenti. 

Prendiamo il caso del 25 aprile: invece di isolarsi la Lega poteva vivere questa festa come richiamo all’indipendenza nazionale e alla libertà, trattandosi di una giornata che celebra la liberazione del Paese dall’invasione tedesca e il ritorno alla democrazia. 

Anche sul caso Siri, al di là del merito della questione, sarebbe stata molto opportuna una mossa immediata dell’interessato che – facendosi  momentaneamente da parte – avrebbe evitato alla Lega di restare per settimane sulla graticola.

La sensazione è che la Lega si trovi ora sotto schiaffo  (sotto attacco quotidiano) e in una condizione di isolamento politico

Probabilmente subisce un coalizzarsi di avversari dovuto proprio al suo successo nelle urne e nei sondaggi. E probabilmente pure il risultato alle elezioni europee sarà molto buono (anche se è difficile credere a sondaggi troppo sopra al 30 per cento).

Resta però la sensazione che Salvini e la Lega abbiano il fiatone, manchino di una strategia a medio termine e rischino di vincere le europee in Italia, ma subito dopo perdano la centralità  nella partita del governo, magari proprio per l’avvento di un governo Draghi con M5S e Pd (anche le resistenze dei renziani a questo scenario verrebbero spazzate via di fronte alla solita tiritera dell’emergenza spread, del baratro finanziario e del richiamo al “senso di responsabilità”…).

La Lega ha dunque necessità di ridarsi una strategia. Anzitutto comprendendo che è velleitario (e anche sbagliato) illudersi di ribaltare gli attuali equilibri europei con forze di destra: più sensatamente una forza sovranista moderata può diventare determinante nella futura Commissione europea cercando un dialogo col Ppe, anche approfittando del rapporto, in Italia, con Forza Italia e con componenti del Ppe come il partito di Orban. 

In generale la Lega dovrebbe qualificarsi come forza di governo ragionevole e rassicurante, con il profilo del “partito della nazione” e una politica più ponderata e meno istintivamente legata alla velocità di reazione dei tweet. Basta con l’eccesso di social.

Il gruppo dirigente salviniano, a differenza del M5S, ha, al suo interno, personalità dotate di cultura politica ed economica. La Lega avrebbe tutto da guadagnare valorizzando il loro spessore.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 26 aprile 2019

Altro che fine delle ideologie. Da noi perfino la Tav è un’occasione di scontro fra bandiere ideologiche contrapposte. 

L’invito di Salvini al buon senso, al realismo, alla concretezza e al compromesso, fatica a trovare interlocutori. Perché non siamo mai usciti veramente dalla febbre ideologica del ’68. Sono cambiati solo i miti, gli slogan e le bandiere.

Continua a dilagare la “politica mitologica” come la chiamava Joseph Ratzinger : basti pensare all’utopia mercatista e liberista, a braccetto con quella europeista-eurista, quindi l’utopia scientistal’utopia migrazionista e multiculturalista e anche l’ideologia “politically correct”.

In una recentissima conferenza Mario Draghi, potente governatore della Banca centrale europea, ha sorpreso l’uditorio citando proprio quel discorso – a cui ho accennato – di Benedetto XVI, un’autorità insolita per certi ambienti. E’ un discorso del 1981 ai deputati cattolici del parlamento tedesco. Solo che evocandolo Draghi ha forse fatto un autogol

Infatti la pagina ratzingeriana rappresenta la demolizione di tutte le utopie politiche e ideologiche, anche l’ultima del Novecento, quella dell’Unione europea e dell’euro. 

Quindi finisce per essere pure una demolizione dei presupposti della Bce che rappresenta la quintessenza dell’utopia di Maastricht: la Bce è infatti un’innaturale invenzione senza precedenti storici, non essendo mai esistita una banca centrale che non appartiene a uno Stato e che non assolve alla funzione di pagatore senza limiti di ultima istanza come qualsiasi altra Banca centrale.

E’ nota la polemica politica riguardo alla Bce come una tecnocrazia che sovrasta gli stati, i governi e i popoli. E’ parte del dibattito sulla democraticità (o meno) dell’Unione Europea.

Un grande dissidente russo, Vladimir Bukovskij, è arrivato, anni fa, a paragonare la Ue a quel “mostro”  che fu l’Urss. Ovviamente la Ue non è l’Urss, è sbagliato accostarle. Ma l’allarme di Bukovskij dovrebbe far riflettere. 

Un altro che conobbe di persona l’utopia realizzata del comunismo, Vaclav Klaus, presidente della libera Repubblica ceca dal 2003 al 2013, intervistato ieri dal “Messaggero” ha messo in rilievo vari aspetti critici della Ue.

Per esempio ha dichiarato: “Abbattere i confini è un’ambizione utopica”. E lo ha detto sia in riferimento alle politiche migratorie sia in riferimento allo svuotamento delle sovranità nazionali dei paesi europei. 

Lui propone di “tornare all’Europa precedente il Trattato di Maastricht”, anche ridiscutendo l’euro. “Al tempo stesso” ha aggiunto “dovremmofermare la migrazione di massa  e restituire potere decisionale e sovranità agli stati nazionali”.

In effetti mentre la Cee era una comunità di nazioni costruita con realismo e concretezza, rispettosa delle diversità e delle sovranità, l’Unione europea  che l’ha soppiantata nel 1992 ha una forte connotazione ideologica e utopica.

Il problema è che la discussione sulla UE e sull’ euro (che furono presentati come il paradiso in terra) non è un confronto laico in cui si fa un bilancio razionale  di questi venti anni (bilancio che sarebbe economicamente e civilmente disastroso). 

La Ue e l’euro sono diventati una mitologia. Il dibattito su questi temi è teologico : l’euro e l’Unione europea sono ormai dogmi di fede (laica) indiscutibili, sono il Bene (contrapposto al Male e alla barbarie) e chi osa criticarli o discuterli è trattato da eretico che merita solo la scomunica e il rogo.

E’ qui, in questa pretesa “divina”, che si riconosce il veleno dell’utopia. Ed è qui che il memorabile discorso di Joseph Ratzingerdimostra la sua straordinaria attualità.

Quando fu pronunciato, nel 1981, si riferiva specialmente all’utopia ideologica che aveva devastato gli anni Settanta, dopo il ’68, cioè il marxismo. Ma è perfettamente attuale anche oggi che l’utopia ideologica – abbandonati falce e martello – si è trasferita su altri simboli.

Ratzinger spiegava che “lo stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana[…].Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Ma quando la fede cristiana, la fede in una speranza superiore all’uomo, decade”  – ed è il caso dell’Europa di questi decenni (come dimostra la polemica sulle “radici cristiane” cancellate dalla Costituzione europea) – “insorge allora di nuovo il mito dello stato divino, perché l’uomo non può rinunciare alla totalità della speranza”

Ratzinger spiegava: 

Il primo servizio che la fede fa alla politica è la liberazione dell’uomo dall’irrazionalità dei miti politici, che sono il vero rischio del nostro tempo. Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo; limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra il pragmatismo dei meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. 

Potremmo considerare, per esempio, il dibattito sull’emigrazione. Quante volte abbiamo sentito utopisti e cuori in fiamme che incitavano ad abbattere le frontiere ed accogliere tutti coloro che arrivavano con i barconi dall’Africa, dove ci sono molti milioni di potenziali migranti.

Un nobile slancio. Ma è realistico? E’ possibile?  E soprattutto: una tale utopia, se realizzata, farebbe il bene del nostro paese e dei popoli africani?Ovviamente la risposta razionale e realista è “no” a tutte queste domande.

Ma chi spiega questo e chi chiude le frontiere all’immigrazione di massa incontrollata passa per meschino e addirittura disumano

Eppure il fatto che, con la diminuzione delle partenze, siano drasticamente diminuite anche le morti in mare dovrebbe far riflettere e spazzar via ilmanicheismo di buoni e cattivi. Invece lo scontro ideologico prosegue. 

Anche su altri fronti prevalgono le battaglie ideologiche. La concretezza, la ragionevolezza, la volontà di compromesso, sono rari. 

Eppure Ratzinger in quel discorso spiegava che la vera moralità politica “è la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”.

Parole di grande attualità.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 10 marzo 2019 

Mario Draghisi laureò nel 1970, alla Sapienza di Roma, sotto la guida del grande economista Federico Caffè, con una tesi intitolata: “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio”. 

In sostanza Draghi, con Caffè come relatore, sosteneva “che la moneta unica (europea) era una follia, una cosa assolutamente da non fare”.

La cosa deve imbarazzarlo, oggi che è presidente della Banca centrale europea, cioè “Mister Euro”, infatti quando gli viene ricordata la liquida con una battuta. Ma senza spiegare perché ha cambiato idea. Non poteva certo essere una tesi campata per aria quella che fu presentata – nientemeno – da Caffè.

Del resto negli anni successivi, quando la moneta unica europea cominciò davvero a essere realizzata, fior di premi Nobel per l’Economia affermarono che era una follia(come aveva argomentato il giovane Draghi). 

Personalità come Milton Friedman (“la spinta per l’Euro è stata motivata dalla politica, non dall’economia… esacerberà le tensioni”), Paul Krugman (adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica”), Joseph Stiglitz (“questa crisi, questo disastro è artificiale e in sostanza ha un nome di quattro lettere: euro”).

Poi Amartya Sen: “l’euro è stata un’idea orribile… Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata…Quando tra i diversi Paesi hai differenziali di crescita e di produttività, servono aggiustamenti dei tassi di cambio. Non potendo farli, si è dovuto seguire la via degli aggiustamenti nell’economia, cioè più disoccupazione e taglio dei servizi sociali. Costi molto pesanti che spingono verso un declino progressivo”.

Addirittura James Mirrless, rivolto agli italiani, ha dichiarato: “guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso”. E Christopher Pissarides, un tempo sostenitore dell’euro, oggi è passato sul fronte opposto: “La situazione attuale non è sostenibile ancora per molto. E’ necessario abolire l’Euro per creare quella fiducia che i Paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro”.

L’euro più che una moneta è un progetto politico e non ha giustificazioni economiche, riflette solo la strategia tedesca di egemonia continentale. Per questo crea divisione e conflitti. 

Non a caso la Gran Bretagna(che non ha mai aderito all’euro, perché secondo la Thatcher era una minaccia per la democrazia) si è tirata fuori pure dalla UE.

A vent’anni dalla nascita dell’euro è toccato proprio a Mario Draghi, l’altroieri, celebrare il funesto evento con una conferenza a Pisa. Ha affermato che “l’unione monetaria è stata un successo sotto molti punti di vista”. Una perifrasi che, tradotta, significa: è stata per metà Europa una sciagura, ma non possiamo dirlo. 

Anche se la gente se n’è già accorta da sola, sulla propria pellee sulle proprie tasche, come dimostra (dopo il disastro della Grecia) la sollevazione popolare in Franciae il voto del 4 marzo in Italia, dove venti anni di moneta unica hanno prodotto milioni di poveri, ci hanno fatto perdere più del 20 per cento di produzione industriale, hanno messo in ginocchio il ceto medioe hanno fatto sprofondare nella disoccupazione o nella sotto occupazione un’intera generazione di giovani.

Per cascare in piedi, Draghi ha pure ammesso che il “successo” dell’euro tuttavia non ha “prodotto i risultati attesi in tutti i Paesi”. L’ennesima perifrasi per dire che la Germania con l’euro ha fatto un affarone, mentre gli altri hanno preso il pacco.

Peraltro proprio Draghi è tornato a parlare di uscita dall’euro (“uscire dall’euro non garantisce più sovranità”). Ma non dicevano che era irreversibile?

Si può considerare il discorso di Draghi come sintomo della disperazionedi una UE che sta esplodendo. Ma è anche vero che il suo è stato un discorso da politico. E c’è chi, nel Palazzo, pensa a lui, presto in uscita dalla Bce, come a un nuovo Monti per “commissariare” il nostro Paese nei prossimi mesi. E’ più di un’ipotesi ed è molto preoccupante.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 17 dicembre 2018

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