Che fine hanno fatto i cattolici del Pd? La domanda s’impone ora che – protagonista di tutte le battaglie più laiciste – il Pd è entrato in guerra aperta contro il Vaticano e soprattutto contro il Vaticano di papa Francesco.

Cioè contro quel Papa che Letta diceva di considerare un punto di riferimento e che – in fondo – oggi chiede solo correzioni al Ddl Zan a difesa della libertà di tutti gli italiani. È una situazione nuova per il Pd.

Nel partito che doveva unire due anime opposte, quella comunista del Pci e quella “cattolico democratica” della Sinistra diccì, non c’è più traccia di cultura cattolica. E non si vede al suo interno neanche quella cultura liberale e socialista che rifiuta indottrinamenti, bavagli, dogmi e pedagogie di Stato.

C’è solo quella (post) comunista diventata radical-chic. Tutto il Pd ormai professa l’ideologia soffocante del “politicamente corretto”. Continua

A cento giorni dalla nascita del governo Draghi, si è dissolta di colpo la cortina fumogena della propaganda ed è apparsa una realtà opposta a quella che, per mesi, i media e il Pd, avevano raccontato:il grosso problema dell’esecutivo non è la Lega, ma il duo Pd-M5S.

A dire il vero, i mal di pancia dentro al Pd, per la defenestrazione del governo Conte e l’arrivo di Draghi, c’erano fin dall’inizio e sono noti da tempo.

Goffredo Bettini, lo stratega di Zingaretti, insinuava: “Non voglio usare la parola complotto, ma per la caduta del governo presieduto da Giuseppe Conte si è mosso qualcosa di più grande di Matteo Renzi”.

Ieri Marcello Sorgi, che conosce bene l’ambiente Pd, scriveva sulla “Stampa” che “il Pd di Zingaretti e Bettini”, dopo la crisi di governo, pur di bloccare Draghi, si è “adoperato fino all’ultimo per convincere Renzi al varo impossibile del Conte-ter”.

Poi, con il cambio di segreteria e l’arrivo di Letta, si è voluta accreditare l’idea che il suo Pd fosse diventato il più convinto sostenitore di Draghi, quasi “il partito di Draghi”. Ora però si rende evidente che è il contrario: Draghi, per i Dem, è un avversario. Continua

Lo aveva preannunciato a marzo, nel discorso di “insediamento” alla leadership del Pd. Enrico Letta disse che si candidava alla segreteria, ma avvertì che non c’era bisogno di “un nuovo segretario, ma di un partito nuovo”.

I più vecchi dirigenti del Pci avranno avuto un sussulto, perché “partito nuovo” fu proprio la storica formula con cui Togliatti, nel 1944, costruì il suo Pci. E paragonare Togliatti e Letta lascia quantomeno perplessi.

Ora finalmente si capisce cos’è, o cosa dovrebbe essere, questo partito “di Letta e di governo” (per parafrasare Berlinguer): il nuovo segretario vuole un partito che diventi finalmente simpatico agli italiani. Vasto programma.

Francesco Merlo, che evoca il liscio di Raoul Casadei (“Tu sei la mia/ simpatia…”), come fosse il nuovo testo ideologico del Pd, è problematico: “E’ difficile dire cosa sia la simpatia in politica. Enrico Letta vuole imporla ‘a tutti i costi’. Con l’‘empatia’ e il ‘volersi bene’ sarà la nuova grammatica della sinistra di cui Letta non sopporta più ‘l’antipatia’”. Continua

Che “unità nazionale” è quella che si esprime nel governo Draghi? Non la si vede né nel Palazzo, né nel Paese.  A quasi due mesi dal varo dell’esecutivo, anche chi – come il sottoscritto – ne ha auspicato la nascita (e continua a difenderne la validità), deve riconoscere che qualcosa non va.

Non solo in questo o quel provvedimento: qualcosa di importante non va nella maggioranza e di conseguenza nell’azione quotidiana dell’esecutivo. Lo dimostrano le fibrillazioni di questi giorni nella coalizione governativa e anche i sondaggi che continuano a dare in calo la fiducia degli italiani verso il governo e verso il presidente Draghi (anche se egli gode del sostegno quasi unanime dei media). Continua

Ieri “Repubblica”, giornale storicamente vicino al Pd, presentava così una lunga inchiesta su quel partito: “Anatomia del Pd, un partito in crisi permanente e mai nato davvero. In 14 anni ha cambiato nove segretari e subìto sei scissioni. Più volte sul punto di implodere, è sempre riuscito a rialzarsi. Dopo Zingaretti ci prova Letta, ma non ci sarà un’altra occasione”.

Non sembra la fotografia di un partito che scoppia di salute. Forse scoppia e basta. Se non è ancora deflagrato è perché, da anni, sta quasi sempre al potere che è il suo “unico collante” secondo un intellettuale di area come Cacciari (“non hanno strategia, non hanno un’anima”). Zingaretti in effetti si è dimesso con queste spietate parole: “Nel Pd si parla solo di poltrone. Mi vergogno”.

Con Enrico Letta il Pd è ancora quello di prima. D’altronde lui non proviene dalla società civile, né dalla periferia (come fu per Renzi). E’ da sempre parte dell’establishment: è stato perfino premier, ma di un governo talmente spento che fu affondato dallo stesso Pd (lui fu sostituito, appunto, con Renzi). Continua

Enrico Letta può stare sereno. Chi viene eletto segretario del Pd (sempre all’unanimità) è in una botte di ferro. Come Attilio Regolo.

I piddini infatti sono fantastici. Tutti per Bersani contro Renzi. Poi tutti per Renzi contro Bersani e contro Letta. Ora tutti per Letta contro Renzi (magari per riprendersi Bersani). E sono sempre gli stessi.

Fratelli coltelli, ma uniti dal potere, come dice Cacciari. Così hanno avuto sempre meno voti e sempre più potere.

Ieri Letta ci ha spiegato che se il Pd è stato continuamente al governo, per anni, anche quando ha perso, lo ha fatto per noi, per impedire agli italiani di cacciarsi nei guai. I piddini si sono sacrificati eroicamente per il nostro bene: volevano tanto andare all’opposizione, ma sono stati costretti a inchiodarsi alle poltrone ministeriali dal loro altruismo.

Ma ora basta, dice Letta. Il PD non deve più sacrificarsi, né essere costretto a fare indigestione di poltrone. Lo ha detto davvero. Ecco le sue parole: “Noi non dobbiamo essere la Protezione civile della politica, cioè il partito che è costretto ad andare al potere perché se no gli altri sbandano. Perché se lo facciamo diventiamo il partito del potere”. Così ha invitato il PD a non aver paura di “andare all’opposizione”. Continua

Nicola Zingaretti si è dimesso dalla segreteria del Pd scrivendo: Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza”.

Da 20 giorni? A Zingaretti – che peraltro di poltrone ne aveva due – qualcuno ha sarcasticamente risposto: “Di cos’altro hanno mai parlato?”.

Ma al Segretario dimissionario, secondo cui parlare di poltrone uccideva il partito, aveva già dato una terribile risposta preventiva anche il filosofo della Sinistra, Massimo Cacciari: “Il Pd non è un partito, è un insieme di avanzi di partito il cui unico collante è il potere. Deve resistere al governo per esistere. Infatti dove non sono al governo, come in alcune regioni del Nord, vivono uno smottamento completo, hanno zero base sociale. Se salta l’alleanza con i 5stelle loro che fanno? Non hanno strategia, non hanno anima”. Continua

Se c’è una cosa che unisce la Sinistra e le tecnocrazie (amate dal grande capitale) è l’ostilità verso il ceto medio e il bisogno di punirlo con tasse, balzelli e gabelle di ogni tipo. Naturalmente in nome della giustizia sociale e con la parola d’ordine: “chi ha di più, deve pagare di più”.

Per esempio, ieri su “Repubblica”, Graziano Delrio, capogruppo Pd alla Camera, ha dichiarato che ci vuole “un fisco più equo, che pesi meno sui ceti medio-bassi” e “sia ancor più progressivo”.

Delrio vorrebbe dare a intendere che oggi il fisco è iniquo perché non è abbastanza “progressivo” e pagano troppo “i poveri”, mentre dovrebbero pagare di più “i ricchi” (quelli che il Pd ritiene i ricchi, ovvero il ceto medio). Questa è la narrazione della Sinistra, di solito rilanciata dai media. Continua

Alcuni giornali cercano in vari modi di provocare la Lega e di rappresentarla ora come la “mina vagante” ora come l’anello debole della nuova maggioranza di governo.

Ma è vero l’esatto contrario per chi ha seguito il dibattito parlamentare e osserva l’implosione chiassosa del M5S (con espulsioni e scissione) e quella (meno chiassosa) del Pd di Zingaretti, specialmente con l’uscita di scena di Conte.

E’ evidente infatti l’enorme trauma che il governo Draghi rappresenta per i giallorossi. Così come è evidente la serenità (politica) di Matteo Salvini (a cui si somma quella di Renzi e quella di Berlusconi). Il motivo è semplice.

Il trauma di Pd e M5S non deriva solo dalla perdita del potere reale che avevano in duopolio nel governo Conte bis (e già questo non sarebbe poca cosa). C’è di più. Continua

Certe notizie passano quasi inosservate, ma sono le più rivelatrici. Mi ha colpito una cosa accaduta, nella disattenzione generale, durante le consultazioni di Mario Draghi per formare il nuovo governo.

Così venerdì sera, ascoltando la lista dei ministri, l’ho sintetizzata in questo tweet: “Da padre che vive il (vero e proprio) dramma della disabilità, ringrazio Matteo Salvini perché è stato l’unico che ha portato sul tavolo del premier incaricato la sofferenza di milioni di persone dimenticate da tutti e inascoltate: un ministero per i disabili è una grande cosa”.

Il leader della Lega ha spiegato, in un’intervista a Mentana, che negli incontri con Draghi – oltre all’ovvio e primario obiettivo di spazzar via il flagello Covid – ha portato alla sua attenzione la necessità di “un ministero per le disabilità, perché in Italia ci sono sei milioni di disabili troppo spesso inascoltati, ed (il ministero) è stato creato”.

Salvini ha segnalato anche la necessità di un ministero “ad hoc” per il turismo, “che è il settore che ha sofferto di più in questo anno di crisi e che rappresenta il 13 per cento del Pil”. Continua