La povera gente  passa su questa terra e viene dimenticata. Eliot le fa dire: “La nostra vita non è benvenuta/ la nostra morte non è menzionata dal Times”. 

Fra loro c’è pure chi ha dato la vita per tutti noi. Penso a quelle lapidi che si trovano in tutti i paesi italiani, col loro triste elenco di nomi, tutti giovani morti. Sono i 700 mila soldati italiani  macellati dall’inutile strage della Prima guerra mondiale.

Anche a Montalcino, paese della campagna senese oggi noto per il vino pregiato, il Brunello, ce n’è una: riporta i nomi di 240 caduti su circa 9.000 abitanti. Uno di quei nomi è “Fedele Temperini”  morto a 26 anni. Era un contadino di Montalcino: podere Il Giardino.

Il Regno d’Italia si ricordava di questi poveretti solo per chiamarli alle armi. I contadini di solito erano arruolati come fanti, la carne da macello. Fedele infatti apparteneva al 69° Reggimento fanteria della Brigata “Ancona” e morì a Fossalta di Piave nel 1918.

Anche lui era ormai dimenticato  da cento anni e sarebbe rimasto ignoto fino al giorno del giudizio. Sennonché il suo nome è riemerso  per una strana serie di circostanze due mesi fa oltreoceano: Fedele non avrebbe mai immaginato di essere menzionato nel gennaio 2019 sul “Washington Post”.

Il suo nome è uscito dalle nebbie della dimenticanza generale solo perché in un momento della sua oscura vita di fante/contadino, la sera dell’8 luglio 1918, a Fossalta di Piave, per un istante fatale, si trovò precisamente nel mezzo tra una micidiale granata austriaca che esplodeva e un giovane soldato americano che stava mangiando formaggio con lui. Così, a quel soldato americano, Fedele, senza saperlo, salvò la vita, facendogli scudo col suo stesso corpo.

L’americano, che pure restò ferito, faceva l’autista dell’ambulanza e veniva mandato in moto a rifornire di sigarette e cioccolata i commilitoni: si chiamava Ernest Hemingway, diventerà famoso e – in fondo – è proprio da quel suo ferimento, da quell’averla scampata e dal poterla raccontare in un romanzo di sapore autobiografico, “Addio alle armi”, che inizierà la sua celebrità letteraria mondiale.

Infatti oggi a Fossalta di Piave c’è una stele che ricorda il ferimento del giovane scrittore statunitense. Anzi, tra Fossalta, il Piave, la trincea di Busa Burato e la Casa gialla è stato allestito un itinerario storico, lungo 11 chilometri, chiamato “La guerra di Hemingway”.  

E’ merito del biografo statunitense di Hemingway, James McGrath Morris, e dello storico italiano Marino Perissinotto, aver identificato finalmente – oggi – quel fante italiano che lo scrittore, in “Addio alle armi”, nomina come “Passini”. Adesso sappiamo che è Fedele Temperini.

Il romanzo fu pubblicato nel 1929, nel 1957  diventò anche un film  dove recitarono Rock Hudson, Vittorio De Sica e Alberto Sordi. Nel frattempo Hemingway, che nel 1951 aveva pubblicato “Il vecchio e il mare”, aveva vinto il Nobel per la Letteratura nel 1954

C’è chi ha scritto, a proposito di Fedele Temperini, che “indirettamente, come ‘effetto collaterale’ della sua morte in guerra, ha permesso che ci arrivassero capolavori come ‘Il vecchio e il mare’ ”. 

Ma cosa accadde precisamente? Il “Corriere della sera”ricorda che “il futuro premio Nobel per la Letteratura fu colpito dalle schegge in quella notte d’estate” e “sarà decorato con la medaglia d’argento per essersi prodigato, nonostante la ferita, nel salvataggio di altri”.

Fernanda Pivano, nella sua biografia di Hemingway, fa una ricostruzione un po’ particolare. Parla della “terribile storia della sua ferita a Fossalta che lo rese una celebrità nazionale”. 

E spiega: “Quando sbarcò in America il 21 giugno 1919 dopo cinque mesi di convalescenza, la promozione a tenente, la proposta di una medaglia d’argento al valor militare, la nomina per tre croci al merito di guerra e una pensione vitalizia di 250 lire all’anno, venne accolto da una folla di giornalisti e da un diluvio di ritagli di giornale”.

La biografa a questo punto cita una lettera del 1927di Hemingway a Maxwell Perkins  in cui “scrisse che aveva ricevuto la medaglia d’argento e le tre croci di guerra, una delle quali assegnata per errore  per un’azione compiuta da altri mentre si trovava in ospedale, con molta preoccupazione di venir considerato un bugiardo”.

Per questo “chiese sempre agli editori di evitare notizie su questo periodo” e il 24 giugno 1952  scriveva alla stessa Pivano: “Vedendo le ultime edizioni di ‘Per chi suona la campana’ e di ‘Addio alle armi’ c’erano allusioni al mio servizio militare eccetera sulle copertine. Vorrei che venissero tolte. Non voglio essere un falso eroe. Ce ne sono troppi e troppi veri che sono morti o silenziosi. Non voglio che qualcosa sia usato su di me in guerra. Non porto decorazioni e non voglio presentarmi come uno scrittore con il loro aiuto”.

In effetti in “Addio alle armi”, nell’episodio del ferimento e nel seguito, il protagonista è molto sobrio e modesto. Quando – ricoverato in infermeria – riceve la visita del tipo che gli annuncia una medaglia, lui chiede: “E perché la medaglia?”

Il suo interlocutore gli spiega:

– Perchè sei stato ferito gravemente. (…) Raccontami com’è successo. Qualche eroismo l’hai fatto? –
– No – risposi. – Mi son sentito scaraventare per aria mentre mangiavamo formaggio. –
– Non scherzare. Prima o dopo, devi averlo fatto qualche cosa d’eroico. Cerca di ricordarti. –
– No, niente d’eroico. –
– Non hai portato dei feriti sulle spalle? Gordini dice che ne hai portati parecchi, ma il maggiore dell’ospedaletto giura che è impossibile. E lui che deve firmare la proposta. –
– Non ho portato nessun ferito. Non potevo muovermi.

Come si vede il protagonista appare alquanto modesto. Non si può dire davvero che abbia amplificato le proprie gesta. Tutt’altro.

Può darsi che nella realtà il giovane Hemingway abbia comunque fatto atti eroici. D’altronde il suo coraggio è provato dalla stessa decisione di venire a combattere come volontario (sebbene diciottenne)  e le onorificenze ricevute mostrano che non si risparmiò. Di certo però quell’esperienza lo convinse dell’assurdità  di quella carneficina. La guerra nella sue cruda realtà gli apparve orrenda.

Pare che nel 1960  – ormai una celebrità mondiale – lo scrittore americano abbia visitato Siena. Lo ricordano ancora mentre sfoglia libri sugli scaffali di una storica libreria del centro, accanto a Piazza del Campo. Si dice che abbia visto il Palio  di quel 2 luglio 1960. Non si sa se lo scrittore sapeva o ricordava che il soldato che gli aveva salvato la vitaveniva proprio da questa città toscana. 

Né si sa se qualcuno dei familiari di Fedele lesse mai “Addio alle armi”, dove venivano raccontati gli ultimi istanti di vita di Passiniche sembrano ricalcare il dramma del fante senese che morì come la povera gente delle campagne italiane, invocando la Madonna e la mamma

Hemingway racconta che Passini aveva le gambe “sfracellate sopra il ginocchio. Una era già staccata. L’altra era trattenuta solo dai tendini e dai brandelli dell’uniforme, e il moncone strappava per conto suo, vibrava come un corpo a sé. Passini si mordeva il braccio e gemeva”.

Gridava: “ ‘Oh mamma mia, mamma mia  – Dio ti salvi, Maria – Oh Gesù fammi morire, Mamma mia, oh purissima adorata Vergine Maria, fammi morire. Basta. Basta. Oh Gesù, Vergine cara, basta. Mamma, mamma mia’. E poi tacque, col braccio tra i denti, mentre il moncone vibrava ancora”.

Hemingway negli ultimi anni soffriva di gravi problemi di salute. Proprio un anno dopo il suo soggiorno a Siena, nel 1961, mise tragicamente fine alla sua vita.

Antonio Socci

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Da “Libero”, 17 marzo 2019 

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