A Claudio Magris sono state necessarie ben due pagine del “Corriere della sera” per intimare a quelli di Casapound di lasciar stare il poeta Ezra Pound, perché – sì – aveva orribili idee politiche, ma, afferma il critico triestino, come poeta valeva molto di più. Una colossale e insperata pubblicità per quella formazione politica di destra.

Non entro in questa diatriba. Ma lo strano binomio poesia e politica è molto stimolante e si presta perfino a incursioni ironiche. Sarebbe divertente cercare nella poesia qualche sentenza sull’attualità politica.

Forse si potrebbero applicare al PD o a Forza Italia, per esempio, i più famosi versi di Eugenio Montale: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe (…)/ Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Tuttavia il tema è serio. Ha ragione Magris quando spiega che “non è bene chiedere ai poeti indicazioni politiche”. Perché spesso dicono sciocchezze. E ha ragione pure quando osserva che le “affermazioni ideologiche” dei poeti “sono spesso in contrasto con un loro forte e generoso sentimento della vita e dell’uomo”.

E’ lunga la lista di poeti e intellettuali del Novecento che hanno aderito a partiti e regimi totalitari eppure poetando diventavano altri uomini e spalancavano gli orizzonti infiniti della condizione umana. Perciò è giusto distinguere.

Tuttavia una cosa sono le ideologie, altra cosa sono gli ideali. Una cosa sono le “indicazioni politiche”, altra cosa è l’anima di un popolo, la sua identità nel mondo, cosa che – della politica – dovrebbe essere sempre la bussola spirituale più nobile. Continua

La condizione iniziale del protagonista della Commedia stupisce. È così moderna, così immediata per noi: l’angoscia, lo smarrimento, la solitudine, il sentirsi “gettati” nel mondo, il buio, la paura, la disperazione, il fallimento, il sentirsi braccati.

Ma sorprende ancor di più quella che Dante indica come la sua personale via di salvezza da questa disperazione, da questo fallimento, individuale e collettivo: un volto di ragazza. Beatrice. Il suo primo, grande amore giovanile.

Com’è possibile che un semplice incontro fra adolescenti sul Lungarno di Firenze, uno sguardo furtivo, uno struggersi del cuore, sia così importante e significativo? Continua

E’ ufficiale. Dante ebbe quattro figli: insieme a Pietro, Iacopo e Antonia vi fu Giovanni. Di lui si parlava da un secolo, da quando cioè saltò fuori il suo nome in un documento del 1308, ma gli studiosi erano incerti. Si ipotizzò pure che si trattasse di un figlio illegittimo. Adesso invece si scopre che il poeta ebbe davvero, dalla moglie Gemma, un quarto figlio, di nome Giovanni.

La scoperta è stata acclarata grazie a un nuovo documento del 1314 scoperto nel 1972 da Renato Piattoli all’Archivio di Stato di Firenze e solo oggi pubblicato nel nuovo “Codice Diplomatico Dantesco” (Salerno) curato da Teresa De Robertis, Giuliano Milani, Laura Regnicoli e Stefano Zamponi.

Il documento mostra Giovanni Alighieri, il 20 maggio 1314, presso un notaio fiorentino, nell’atto di stipulare un contratto relativo alle terre di proprietà del padre a Pagnole (Pontassieve). Dunque Giovanni si prendeva cura degli affari di famiglia, cosa assai delicata visto che Dante era stato colpito da condanna ed era stato messo al bando.

UNA DANZA IN PARADISO

L’arrivo di Giovanni fra i figli dell’Alighieri ha indotto a rileggere con una certa curiosità il Canto XXV del Paradiso, perché i tre apostoli che lì danzano e cantano intorno a Beatrice e a Dante sono Pietro, Giacomo e Giovanni.

Laura Regnicoli, una delle curatrici del “Codice Diplomatico”, in una intervista nota che i tre apostoli hanno proprio gli stessi nomi dei tre figli (Pietro, Iacopo e Giovanni): “come i santi del ‘girotondo’ del canto, una bella suggestione”. Continua

In altri tempi a celebrare solennemente in Senato, alla presenza del Capo dello Stato, il 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, sarebbero state chiamate personalità del calibro di Francesco De Sanctis o Benedetto Croce.

Ma ogni epoca ha i vati che merita. Così, pare per volontà del presidente Grasso, il Senato nei giorni scorsi ha fatto tenere la suddetta prolusione al comico di Vergaio, Roberto Benigni. E’ lui il nuovo vate della nazione? Continua