I poeti hanno rappresentato splendidamente le epoche storiche, i sentimenti, la natura. La poesia gozzaniana ha reso liriche perfino le piccole “cose di pessimo gusto”. Addirittura il pomodoro ha trovato un grande cantore, Pablo Neruda. Così le stagioni della terra e le stagioni della vita.

Ma viene da chiedersi quale poeta potrebbe raccontare “questa” primaverastrana, su cui grava l’alone di morte della pandemia, questi alberi in fiore nello scenario spettrale delle nostre belle città deserte. Chi potrebbe cantare questa maledetta primavera, così anomala da privarci, stavolta, della sua consueta “joie de vivre” e da ossessionarci con ansie di morte?

C’è un poeta che ha colto la bellezza e la segreta tristezza che è da sempre presente nella primavera, che poi è la malinconia della giovinezza: Gerard Manley Hopkins. Più di tutti egli ha visto la ferita che la bellezza – con la vita – porta sempre in sé (oggi più che mai): la sua finitudine, la sua mortalità. Continua