I poeti hanno rappresentato splendidamente le epoche storiche, i sentimenti, la natura. La poesia gozzaniana ha reso liriche perfino le piccole “cose di pessimo gusto”. Addirittura il pomodoro ha trovato un grande cantore, Pablo Neruda. Così le stagioni della terra e le stagioni della vita.

Ma viene da chiedersi quale poeta potrebbe raccontare “questa” primaverastrana, su cui grava l’alone di morte della pandemia, questi alberi in fiore nello scenario spettrale delle nostre belle città deserte. Chi potrebbe cantare questa maledetta primavera, così anomala da privarci, stavolta, della sua consueta “joie de vivre” e da ossessionarci con ansie di morte?

C’è un poeta che ha colto la bellezza e la segreta tristezza che è da sempre presente nella primavera, che poi è la malinconia della giovinezza: Gerard Manley Hopkins. Più di tutti egli ha visto la ferita che la bellezza – con la vita – porta sempre in sé (oggi più che mai): la sua finitudine, la sua mortalità.

“Come salvare la bellezza dallo svanire lontano?”. E’ la domanda con cui inizia una sua splendida lirica intitolata “L’eco di piombo e l’eco d’oro”. La prima voce è quella di un “coro” disperante, perché “non c’è mezzo di spianare queste allineate rughe, rughe profonde… di scrollar via questi luttuosissimi messaggeri”, “né a lungo puoi esser chiamata, come ora, bella”. Così

“è saggezza presto disperare

tu dunque comincia: poiché no, niente può farsi per tenere a bada

l’età, i mali dell’età, canuti capelli

… e il mancare e il morire”.

Questo triste coro si conclude ripetendo tante volte – come fosse l’eco – “dispera, dispera, dispera…”. Ma poi irrompe il coro d’oro e ribalta tutto e incita – con il verbo “to spare”, che significa salvaguardare, ma qui può essere tradotto anche sperare – a guardare “altrove”, perché c’è un “luogo beato” dove

“tutto quanto di noi ha pregio e passa,

tutto quanto di noi è fresco e presto fugge

… il volto modulato come tremule acque…

il fiore, il vello della bellezza, oh, troppo pronti a fuggire…

non più s’invola, avvinto alla più tenera verità”.

In quell’altrove infatti vedete, non un capello, né un ciglio, non il minimo ciglio è perduto; ogni capello/ ogni capello del capo è contato”.  Ma dove? “Lassù, quanto in alto! Noi seguiamo, ora seguiamo. Lassù, sì lassù”. E la poesia sembra indicare la terra dell’eterna primavera e dell’eterna giovinezza:

Venite dunque con i vostri modi e arie e sguardi, ricci e monili di fanciulla…

venite e tutto rassegnate… sigillate, inviate

con alti sospiri tutto congedate…

ora, assai prima che la morte

… renda la bellezza a Dio, della bellezza l’essenza e il donatore”.

Hopkins è un grande e stravagante poeta dalla biografia straordinaria e anomala. La famiglia benestante di Gerard faceva parte dell’establishment anglicano, storicamente anticattolico (con tutto il dramma in corso dell’Irlanda cattolica) e per i genitori fu un vero choc quando lui, a 22 anni, nel 1866, diventò cattolico, sotto la guida del grande John Henry Newman: “impeditegli” scrive il padre “di gettare una vita pura e una mente rara nel freddo limbo a cui Roma destina i convertiti inglesi”.

Ma la rottura traumatica avviene due anni dopo quando, questo geniale rampollo della buona borghesia, decide addirittura di farsi gesuita, l’ordine che dai tempi Elisabetta, nel 1600, era il più odiato e combattuto oltremanica (il terrore elisabettiano stritolò, fra tanti cattolici, straordinarie figure di gesuiti che subirono martiri orrendi).

“Tutte le porte si chiusero per lui” scrive Viola Papetti. Infatti Gerard visse poi come straniero in patria. “Giorno e notte compiango/la mia gente e la mia nazione/la mia naufragante generazione”.

Ma solo apparentemente sarà straniero in patria. Come ha notato Von Balthasar, la sua poesia esprime genialmente la percezione della realtà della più grande e più antica tradizione cattolica dell’isola, a cominciare da Duns Scoto, “l’unico uomo che più m’inclina l’animo alla pace;/ del reale il decifratore di più rara vena; senza/ pari un intuito…/ colui che incendiò la Francia per Maria senza macchia”.

Proprio questa percezione della realtà creata caratterizza la poesia di Hopkins e – per così dire – il suo tipico connotato primaverile. Tutto per lui comincia dalla “sorpresa dei sensi”, dallo stupore davanti ai castagni in fiore carezzati dal vento, dai boschi, dai campi di grano, “seguo le corse delle rondini”, “il mondo intero passa, io guardo”. Dovunque avverte “una bellezza sepolta se gli uomini avessero occhi per vederla”.

Per designare questa imprevedibile “unicità di una cosa osservata, di un evento”, conia il termine “inscape”. E dice: “tutto il mondo è pieno di inscapee il caso lasciato libero di agire trova un ordine e uno scopo”. Così “instress”è da lui definita “la forza e l’energia che sostiene l’inscape” ovvero – spiega Von Balthasare – “l’atto profondo, irripetibile che fonda, tiene insieme e tende le cose”.

Si direbbe il Logos. E infatti per Hopkins ogni scintilla di bellezza rimanda al Logos incarnato, a Cristo che è la Bellezza e la Ragione dell’universo. “Penso che la banalità della vita sia sconfitta dall’incarnazione”, scrive nell’anno della sua conversione.

È Cristo che permette ad ogni frammento di bellezza di non morire (se non viene catturato e posseduto). Infatti a cosa tende “tutta questa bellezza sbocciante”, “tutta questa freschezza fumante”, “questo rigoglio di godimento giovane”?

A cosa serve?

“Vedi, fa così: tiene calda

l’intelligenza dell’uomo alle cose che sono.

Basta che l’incontri, riconosci,

in cuore tuo, del cielo il dolce dono, poi parti, abbandonalo.

Sì, augura, a tutti augura, di Dio la più graziosa bellezza, la grazia”.

Un grande poeta tutto da scoprire, il poeta della primavera del mondo e della primavera eterna. Che ha rivoluzionato il linguaggio. “La modernità della sua poesia” scrive Antonio Spadaro “ha suscitato nel Novecento un interesse straordinario della critica letteraria” e notevole è stato “anche l’impatto di Hopkins sui poeti contemporanei”.

Un poeta per la primavera 2020.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 13 maggio 2020

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