I risultati delle elezioni regionali si conosceranno domani. Ma una cosa è certa: il Pd stapperebbe lo spumante se la sfida, nelle sei regioni, si concludesse con un 3 a 3 (così perderebbe una sola regione). Questo la dice lunga sullo stato di salute della Sinistra.

Sappiamo infatti da anni che il centrodestra è maggioranza nel Paese: lo sappiamo dalle elezioni europee del 2019 e dai vari turni di elezioni regionali dove la sinistra è uscita sconfitta (e i grillini decimati).

E’ dunque molto probabile che anche il voto di oggi e domani dia la vittoria al centrodestra e veda sconfitta la Sinistra. Tuttavia è altrettanto probabile che anche questa volta il governo resti in piedi e l’Italia continui ad essere (mal)governata da una coalizione che è minoranza nel Paese e che è incapace di affrontare gli enormi problemi dei prossimi mesi.

Perché? Uno dei motivi – bisogna riconoscerlo – sta nel fatto che il centrodestra ad ogni sua vittoria prospetta un solo (impossibile) scenario, le elezioni anticipate, e non ha – per così dire – un “piano B”. Continua

Venendo da una storia comunista, Pier Luigi Bersani, ex segretario del Pd, ha sempre la propensione alla demonizzazione dell’avversario tipica della casa.

Lo si è visto nei giorni scorsi, quando, in un programma tv si è lanciato a testa bassa contro il centrodestra: “Il messaggio che in Parlamento e fuori sta dando il centrodestra è una coltellata al Paese… Questa gente qua mi viene il dubbio che se avessero governato loro non sarebbero bastati i cimiteri”. Continua

Sacrosanto è stato, per la festa del 2 giugno, l’appello all’unità del presidente Mattarella: ha ricordato che la nascita della Repubblica, nel 1946, segnò “un nuovo inizio, superando divisioni che avevano lacerato il paese, per fare della Repubblica la casa di tutti, sulla base dei valori di libertà, pace e democrazia”.

Il Capo dello Stato ripete di continuo l’appello all’unità, ma solo il centrodestra lo ascolta e dimostra spirito di collaborazione. Dall’altra parte invece arrivano attacchi furibondi e faziosi. Lo stesso governo ha sempre rifiutato di ascoltare l’opposizione. Continua

Ma esiste ancora un centrodestra unito? A parte le elezioni, nelle quali i tre partiti si presentano insieme, normalmente non c’è traccia di prese di posizione comuni o di “vertici” che diano la percezione dell’unità di intenti. Ognuno va avanti per suo conto. In ordine sparso e spesso conflittuale.

Del resto le stesse elezioni regionali, a causa delle candidature, sono ormai al centro di polemiche fra i tre partiti e fanno presagire spaccature. Per non dire degli incredibili smottamenti dentro Forza Italia dovuti ai cosiddetti “responsabili” che – a sentire le cronache – pare siano pronti ad arruolarsi per puntellare l’attuale governo devastante e fallimentare.

Questo eventuale, ennesimo affronto agli elettori farebbe tristemente riflettere su come vengono scelte le candidature. A questo proposito più che ridurre il numero dei parlamentari – secondo la balorda idea grillina – bisognerebbe alzare la qualità dei parlamentari stessi (da questo punto di vista tutti stanno messi male e il M5S peggio). Continua

A volte la realtà riesce a bucare il muro di propaganda e fake news, dissolvendo perfino i fumi della sbornia propagandistica sull’Emilia Romagna.

FATTI E MISFATTI

La mina vagante Carlo Calenda, essendo ai margini – per criticare il papocchio governativo di agosto fra Pd e M5S – questa verità dei fatti l’ha svelata così in un tweet: “Dal 29 agosto 2019 a oggi il blocco di Centrosinistra è passato dal 46,5% al 34,3%. Il blocco Lega-FdI-FI dal 45,6% al 50,5%. Mi pare un’operazione riuscitissima” ha concluso ironicamente.

E a chi gli ha obiettato che comunque il Pd ha il potere e comanda (sia pure a dispetto degli italiani), sottintendendo che il centrodestra ce l’ha in saccoccia, Calenda ha replicato: “spero sia una battuta. Questi sono i dati perché hanno fatto il Governo! Che peraltro sta governando pessimamente. Quando (il centrodestra) sarà al 60% continueremo a dire ‘che bello li abbiamo tenuti fuori dal Governo’?”. Continua

Dopo aver perso le elezioni politiche, le europee e una decina di elezioni regionali, nel giorno in cui perde anche la Calabria, il Pd canta vittoria perché mantiene il governo dell’Emilia Romagna grazie a un sistema di potere ancora vetero-Pci che domina sulla società e che a Bologna si salda con la borghesia radical-chic e quella cattoprodiana. Contenti loro…

Ma il dato più clamoroso è la conferma della sparizione, dal Paese, del M5S, ormai annichilito e assorbito nel Pd. L’esplosione elettorale e, subito dopo, il crollo – un fenomeno che accomuna i grillini e Renzi – ha una spiegazione: la mancanza di identità e di senso di appartenenza. Continua

In Europa è in corso – in queste ore – un vero terremoto, che ha mandato in frantumi l’asse del potere della UE  fondato sull’alleanza fra popolari, socialisti e liberali. E siccome è da lì che è stato imposto all’Italia il governo giallorosso (che è minoranza nel Paese) questo terremoto europeo potrebbe investire anche il già traballante esecutivo ConteBis, già minato da mille grane.

L’altroieri il secondo candidato di Macron  alla Commissione europea, Thierry Breton, ha superato per un soffio il primo esame in commissione giuridica: solo per un voto, 12 sì e 11 no.

Ma è accaduto con un ribaltone politico  perché hanno votato contro Pse, Verdi e Sinistra (Gue) e a favore Ppe, macroniani-liberali, conservatori e i “sovranisti di governo”. Inoltre il sì ha prevalso “grazie all’assenza di un deputato leghista”, scrive Stefano Folli su “Repubblica”. Continua

C’è un rischio da molti evocato, ovvero che l’attuale crisi politica diventi addirittura una crisi istituzionale coinvolgendo la presidenza della Repubblica. Ma nessuno spiega come e perché può accadere. Invece è facile capirlo.

Lo stallo fra i partiti diventa crisi istituzionale se il presidente Mattarella da arbitro diventa giocatore e si trasforma in un nuovo Napolitano o – Dio non voglia – addirittura in un nuovo Oscar Luigi Scalfaro, cioè se decide di eludere il voto degli italiani e s’inventa l’ennesimo disastroso governo tecnico (una riedizione di Monti).

Per la verità Mattarella finora ha sempre fatto capire che non è sua intenzione emulare i Napolitano e gli Scalfaro. Il suo profilo è piuttosto quello del garante, qualcosa di simile ai presidenti democristiani della prima Repubblica. Ma resterà tale? Dov’è che ha fatto capolino il rischio di una trasformazione?

Qualcosa del genere si è intravisto nell’atteggiamento del presidente verso la coalizione più votata del 4 marzo, cioè il centrodestra, e nella sua discreta preferenza (sottolineata dai giornali) per un’alleanza fra M5S e Pd, che ha cercato di propiziare con la sua “moral suasion” indirizzata al Pd, favorita dal desiderio di quei notabili di restare attaccati alle poltrone. Continua

Il vero protagonista di questa campagna elettorale sta nell’ombra: è il “partito straniero”, che sui giornali (che nella quasi totalità stanno dalla sua parte) viene chiamato “l’Europa”. In realtà l’Europa è da tempo una colonia della Super Germania a cui cerca di associarsi la Francia. E l’Italia è il pollo da spennare (ormai già ridotto malissimo). Questa cosiddetta “Europa” – nelle elezioni italiane – punta sul PD e liste associate (come “Più Europa” di Emma Bonino che significa per l’Italia: più immigrati, più tagli, più tasse, più disoccupazione, più sottomissione dell’Italia, più laicismo anticristiano, più affossamento dello stato sociale e ancora più annientamento dello stato nazionale). Ho cercato di illustrare le vere strategie che si dispiegano e la vera posta in gioco in questo articolo pubblicato da “Libero”.

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C’è una campagna elettorale ufficiale sulla scena e ce n’è un’altra dietro le quinte dove si confrontano forze e progetti di cui gli elettori sono all’oscuro e la posta in gioco è l’Italia stessa.

Anzitutto consideriamo ciò che si vede pubblicamente. Sulla scena appare un Pd che arranca, in caduta libera, con un Renzi bollito, barricato nel bunker con i fedelissimi; poi un centrodestra con buoni sondaggi (come coalizione), ma dove coesistono programmi diversi; e un M5S col vento in poppa come lista singola.

Quindi tre contendenti e sui giornali si ipotizzano le loro possibili combinazioni future, in base all’esito delle elezioni. Questo è ciò che appare. Ma dietro la scena va in onda un’altra partita e i veri contendenti sono solo due. Continua

Il centrodestra ha iniziato la campagna elettorale con una falsa partenza. Dovrebbe rivedere messaggio e strategia. Perché la narrazione oggi dominante sui media è allineata alla propaganda “governativa”: se non viene ribaltata e riportata ai dati veri, il messaggio del centrodestra risulterà incomprensibile.

Il centrodestra dovrebbe anzitutto far capire cosa è successo in questi anni, perché un Paese in cui i “poveri assoluti” passano da 1 milione e 911 mila del 2005 a 4 milioni e 742 mila del 2016 è un Paese in ginocchio come se avesse perso una guerra (grazie alle nostre élite).

TEORIE E FATTI

Faccio un esempio della narrazione dominante. L’altroieri sulla prima pagina del “Corriere della sera” è uscito un editoriale di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina dove si leggeva: “L’evidenza empirica dimostra che (…) tagli alla spesa pubblica hanno l’effetto desiderato, cioè riducono il rapporto debito/Pil”.

Se due noti economisti possono scrivere una cosa simile in un articolo di fondo del “Corriere” senza che nessuno (tranne qualche addetto ai lavori) strabuzzi gli occhi, significa che l’opinione pubblica è stata convinta che davvero così stanno le cose e quindi che si debba continuare con la politica del massacro sociale impostaci dalla Germania e dall’euro

In realtà “l’evidenza empirica” dimostra l’esatto contrario di quanto scrivono Alesina e Giavazzi. Prendiamo il più rigoroso dei governi, quello del “salvatore d’Italia” Mario Monti, con cui fu ribaltato il governo di centrodestra scelto dagli italiani.

Tutti ricordano che l’esecutivo Monti ha imposto al Paese lacrime e sangue come nessun altro. Ebbene, ha abbattuto così il debito pubblico? No. Quando s’insediò il rapporto debito/Pil era al 119 per cento, quando se n’è andato era salito al 126,5 per cento. Siccome poi i governi hanno proseguito quella politica “tedesca” oggi siamo al 132 per cento e – se non ci fossero stati gli acquisti di titoli di Stato del Qe da parte della Bce dal marzo 2015 – il nostro debito sarebbe oggi al 157 per cento del pil (dati del Centro studi Economia reale). Continua