C’è voluto il macello – con decapitazioni e sgozzamenti – di 144 giovani cristiani inermi, il giovedì santo, in Kenya, da parte di un commando islamista, per provocare un significativo “mea culpa” di papa Bergoglio, il venerdì santo.

Il papa ha infatti letto questa bella preghiera: “nel Tuo viso schiaffeggiato vediamo il nostro peccato, in Te vediamo i nostri fratelli perseguitati, decapitati e crocifissi per la loro fede in Te, sotto i nostri occhi e spesso con il nostro silenzio complice”.

E’ una drammatica ammissione, anche se ci sarà un coro di corte che interpreterà quelle parole come riferite ad altri, o come una frase generica e retorica: non possiamo certo pensare che papa Bergoglio abbia parlato in modo insincero, ipocrita e senza umiltà. Le sue parole sono un chiaro e leale “mea culpa”.

Anche commovente. Come quando il giovedì santo ha detto: “Io laverò oggi i piedi di dodici di voi… Ma anche io ho bisogno di essere lavato dal Signore e per questo pregate durante questa Messa perché il Signore lavi anche le mie sporcizie”.

E’ il mea culpa pubblico di Pietro. Dovremmo tacerlo se lui stesso lo ha pronunciato pubblicamente? Si tratta semmai di aiutare a fare una svolta vera.

IL TRADIMENTO DI PIETRO

Dopo l’arresto di Gesù duemila anni fa si vide il rinnegamento di Pietro e la fuga degli apostoli che abbandonarono il Maestro nelle mani dei carnefici (tutti eccetto Giovanni).

Ma, dopo aver rinnegato il Signore (per una comprensibile codardia umana), Pietro “guardato da Gesù” scoppia in lacrime e – umiliato e pentito – poi cambia e conforta tutti gli altri nella fede (seguendo infine Gesù sulla croce).

In ogni tempo gli apostoli – come predisse Gesù – sono “vagliati da Satana. Anche oggi, l’epoca in cui la Chiesa rivive la Passione di Cristo, con un oceano di sangue che non ha eguali in duemila anni di storia: si può constatare che ancora una volta (con rare eccezioni) gli apostoli spesso si dileguano e Pietro sembra aver paura di difendere la verità, perfino davanti a una ragazzetta, lì nel cortile di Caifa?

Il “silenzio complice” davanti al macello dei cristiani, la reticenza davanti ai loro carnefici (oggi perlopiù musulmani e comunisti), la sudditanza di fronte ai poteri mondani che vogliono sottomettere la Chiesa, tutto questo ricorda il rinnegamento di Pietro.

Ma ora anche papa Bergoglio farà come Pietro?

Ci sarà un cambiamento vero e concreto?

A leggere il suo messaggio all’arcivescovo di Nairobi non ancora.

RETICENZA

Di nuovo si obbedisce al nefasto comandamento, già osservato da Obama, di non evocare mai l’Islam per gli atti di terrorismo islamista.

Infatti, senza nominare i carnefici e la loro ideologia, il messaggio del papa condanna questo “atto di brutalità senza senso” come se fosse la caduta dell’Airbus tedesco, una tragedia isolata dovuta a uno che è impazzito.

Si continua a tacere che è in atto da tempo, in decine di paesi, una sistematica e planetaria persecuzione islamica contro i cristiani.

Il papa chiede giustamente di “raddoppiare gli sforzi per porre fine a una tale violenza”, ma il primo passo per combattere la violenza ideologica è dire la verità e se nemmeno lui ha il coraggio della verità come potrà finire il “silenzio complice”?

Certo, il “mea culpa” del venerdì santo è già qualcosa. E’ una grazia ottenuta forse dalle preghiere di molti semplici cristiani e dalla “parresia” di pochi testimoni.

Ci sono persone inchiodate su un letto di dolore che in queste ore hanno pianto per quei poveri studenti cristiani del Kenya.

Molti offrono le loro sofferenze perché il papa e i vescovi diventino virili e indomiti difensori dei cristiani perseguitati e della verità, così come pregarono e offrirono per il Sinodo di ottobre (ottenendo la sconfitta, almeno momentanea, di Kasper e compagni).

Anche questi sono i miracoli della preghiera. Occorre però anche dire pane al pane e vino al vino.

Del resto papa Bergoglio, dall’inizio del suo pontificato, chiede proprio preghiere e “parresia”, cioè il parlar chiaro.

Bisogna parlar chiaro ai pastori, memori delle parole di santa Caterina da Siena a certi pavidi ecclesiastici: “Aprite gli occhi e guardate la perversità della morte che è venuta nel mondo e singularmente nel corpo della Santa Chiesa. Ohimé, scoppi lo cuore e l’anima vostra a vedere tante offese a Dio!…Ahimé, basta tacere! Gridate con centomila lingue. Vedo che, per lo tacere, il mondo è guasto, la Sposa di Cristo è impallidita!”.

E’ appunto con la preghiera e la “parresia”, che si può aiutare papa Francesco nel suo ministero.

LA CORTE DEI SILENZI

Invece non lo aiuta, anzi lo induce a “silenzi complici”, quella corte che sempre e comunque lo esalta, lo acclama, lo incensa quasi replicando la gag di Ettore Petrolini nei panni di Nerone, adulato “a prescindere”.

Un giorno Bergoglio disse che “la corte è la lebbra del papato”. E’ vero. Anche del suo papato. Lui stesso, in una intervista, disse che la “francescomania” è da lui percepita come un’aggressione.

La papolatria è spesso una maschera dietro cui ci si mette comodamente al caldo. E a volte mitizzare il papa è anche un modo per non prendere sul serio ciò che lui dice.

Pure nelle scorse settimane si sono visti certi responsabili di realtà ecclesiali pesantemente corretti dal papa, che hanno eluso le sue parole tramite l’esaltazione della persona di Bergoglio come fosse un’apparizione celeste.

Ora davanti al “mea culpa” papale del venerdì santo è prevedibile che la macchina dell’incenso voglia neutralizzare la portata di quell’ammissione.

Invece occorre capire cosa il Papa concretamente propone alle istituzioni internazionali e al mondo per mettere fine al “silenzio complice”. E cosa farà lui.

Mi viene in mente il silenzio totale (finora) del papa di fronte alla tragedia di Asia Bibi, la madre pakistana condannata all’impiccagione solo perché cristiana, un silenzio terribile anche sulla famigerata “legge sulla blasfemia” e sulle condizioni di schiavitù dei cristiani di quel paese.

Silenzio totale pure sul caso di Meriam, in Sudan.

C’è stato poi il silenzio dell’estate scorsa sulle prime stragi dell’Isis. In seguito, anche grazie alle pressioni dei media, il papa ha parlato pure molte volte.

I tifosi compilano pure un elenco di dichiarazioni di papa Bergoglio sui cristiani perseguitati, ma purtroppo sono quasi tutti interventi “innocui”, dove non si chiamano mai per nome i carnefici.

Inoltre il papa, nel momento dell’offensiva dell’Isis, con i cristiani braccati e in fuga, ha affermato che non si doveva usare la forza per proteggere quelle popolazioni minacciate e indifese, come invece chiedevano tutti i vescovi del luogo.

Del resto al di là dei gruppi terroristi c’è un problema islamico generale e bisogna esigere – a chiare parole e con iniziative serie – la fine delle persecuzioni e delle discriminazioni contro i cristiani in tutti gli stati musulmani.

Si capisce che il papa creda nel dialogo come la via per ottenere una certa reciprocità. E’ giusto. Ma era proprio necessario, mentre in Iraq si perpetravano massacri di cristiani che rifiutavano di farsi musulmani, recarsi nella moschea di Istanbul per fare addirittura un atto di adorazione rivolto alla Mecca?

E non si citi a sproposito la visita in moschea di Benedetto XVI che non ha mai fatto un gesto simile di adorazione e che comunque aveva parlato molto chiaro a Ratisbona.

Poi è arrivata pure la gaffe sul “pugno” dopo la strage di Parigi, che è stata usata da certi ultras islamici.

UNA SVOLTA

Ma ora, dopo il mea culpa di venerdì, ci aspettiamo una svolta. Ci aspettiamo che – affacciato a quella finestra – papa Bergoglio, con tutto il prestigio di cui gode sui media, svegli tutti i potenti della terra, mobiliti la sua diplomazia, che faccia sentire a tutti il grido di dolore dei cristiani perseguitati, che indica preghiere continue di tutta la Chiesa, che lanci una grande iniziativa umanitaria per i cristiani perseguitati.

Se lo farà saremo tutti con lui a dire basta col “silenzio complice”.

 

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 5 aprile 2015

Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

Print Friendly, PDF & Email