E’ davvero interessante l’itinerario umano di Walter Veltroni…

Una ricerca di Dio forse inconsapevole, ma appassionata. E’ questo che sta accadendo a Walter Veltroni e che traspare dalle sue incursioni nella narrativa: il prossimo libro, “La scoperta dell’alba”, uscirà il 30 agosto e già se ne parla. Incursioni che a me, lo dico subito, sembrano molto interessanti, anche letterariamente. E commoventi come sempre lo è il desiderio di Dio, il viaggio accidentato verso il senso della vita. In questo sto dalla parte di Veltroni e voglio spiegare precisamente perché mi sono fatto questa idea “religiosa” (anzi, cristiana) di lui e del suo itinerario.

Ma prima devo fare un passo indietro. Mi presento: l’autore di questo articolo è stato per anni uno dei più feroci stroncatori del politico Walter Veltroni (secondo solo, per cattiveria, al Massimo Gramellini di “Compagni d’Italia”). Faccio questa premessa perché ciò che scrivo non sia sospetto di piaggeria. Veltroni infatti era spesso circondato da incensatori. Che forse sono pronti anche stavolta ad agitare i turiboli e tributargli “a prescindere” un entusiastico “bravooo!!!”. Alla maniera di Petrolini. Sui giornali o nei salotti. Questa corte dei miracoli è l’aspetto più indigesto del veltronismo. E anche il più vulnerabile. Così com’è facile bersagliare la sinistra cinematografica e capitolina, specie intellettuale passata in tre decenni da Amendola Giorgio all’Amendola della pubblicità dei telefonini, dai poveri ai Baricchi, dai Pasolini ai Muccini (che fa rima di nuovo con la pubblicità dei telefonini). Da Siciliano a Veronesi. Da Scalfari Eugenio a Scalfari genio. La sinistra dei “Nanni ruggenti” (nel senso di Moretti).

Gramellini dipingeva Veltroni come “l’uomo senza qualità” (uh, quanto sbagliava). Noi l’abbiamo spernacchiato per le sue collezioni di figurine (mentre D’Alema collezionava figuracce), per la Nutella, per la riabilitazione di Totò, di Tex, perfino di “Pierino” e di Giovannona coscia lunga. Poi per il mito un po’ provinciale dei Kennedy e dell’America che lo portava a spaziare da “Furia cavallo del West” a Furio Colombo. Dava la sensazione di una sinistra volatile, facilona, diventata spensieratamente “anticomunista” (come Walter si definì su “Epoca” prendendosi gli insulti dei kompagni) senza grandi patemi.

In realtà il tipo non era così. Non c’era solo una straordinaria capacità comunicativa e poi sotto il vestito niente. No. Sotto al bicchiere mezzo vuoto c’era il bicchiere mezzo pieno. I modi affabili ci parvero solo “paraculismo”, ma erano anche il segno di una sinistra finalmente mite, non fanatica, non settaria, che non azzanna al collo chi sta dall’altra parte. L’appropriazione di simboli altrui – da Kennedy a Don Milani – era troppo disinvolta, ma diceva anche il sano desiderio di uscire dalle cantine dell’intolleranza ideologica per riconoscere le ragioni altrui.

L’inquietudine, l’insofferenza per la politica cinica e politicante alla D’Alema, che partorì “Veltrone l’africano” ci sembrò una sceneggiata terzomondista. Ma invece pose una questione seria e senza ideologismi – il dolore immane di un continente alla deriva – a una politichetta riunchiusa nel Transatlantico di Montecitorio.

C’era forse un po’ di pedagogismo o sentimentalismo, io lo criticai per alcune cose che scrisse su Aids e preservativi in riferimento al Papa (non so se oggi è ancora di quell’idea). Ma mi sono trovato totalmente d’accordo con lui quando – venendo a parlare di giornalismo a Perugia – ha chiesto una Rai-tv che vada oltre i “pacchi” e i reality e spalanchi la finestra sulla realtà, com’è reale il continente della disperazione che preme alle nostre porte.

E’ uscito dalla politica quando era al massimo del successo, leader naturale e acclamato del centrosinistra. Anche questa è stata considerata una furbizia, ma non mi pare che andare a fare il sindaco di Roma per occuparsi di fognature, di vecchietti e di tram, sia una grande astuzia (infatti nessuno dei suoi colleghi lo imita). Forse era nausea sincera della politichetta e bisogno di un’altra dimensione. Umana. Era il sintomo di un’inquietudine che andava oltre la politica. E che infatti si è espressa in forma narrativa. Il libro di racconti “Senza Patricio” mi ha sorpreso e colpito per questo. Perché (senza saperlo?) è un libro sulla nostalgia di Dio, non sulla nostalgia di Palazzo Chigi.

Veltroni esordisce così: “Un giorno, passando per una strada di Buenos Aires, ho visto una scritta su un muro. Vernice colorata su una superfice senz’anima: ‘Patricio, te amo. Papà’. Non mi era mai capitato, in quasi cinquant’anni, di vedere un graffito dedicato da un padre a un figlio. E ho immaginato storie che possono aver prodotto il gesto di quella scritta”. I racconti sono tutti da leggere. Lievi e toccanti. La questione di fondo è la ricerca del padre, perché il dolore della sua perdita precoce è ancora vivo nell’autore e perché in fondo questo è il cuore vero dell’avventura umana.

Lo testimonia la letteratura di tutti i tempi, dall’Odissea all’Amleto, il cui nome in inglese è quasi l’inverso perfetto di Telemaco (Shakespeare giocava con i nomi). La ricerca del padre è la ricerca del nostro nome e del nostro volto. E’ molto di più di quel che appare. Lo scrittore Thomas Wolfe dice: “ciò che più profondamente si cerca nella vita, la cosa che in un modo o nell’altro è al centro di ogni esistenza, è la ricerca dell’uomo per trovare un padre, non soltanto il padre della propria carne, non soltanto il padre perduto della propria gioventù, ma l’immagine di una forza e di una sapienza, alle quali la fede e la forza della propria esistenza possano essere unite”.

Infatti la ricerca di un padre che ti dice “ti amo” è la ricerca di Dio. Anzi, del Dio cristiano, perché “Padre” è il nome proprio che i cristiani hanno dato a quel Mistero ignoto che dall’antichità si dice “Dio”. Gesù ha svelato a noi la Sua identità di “Padre”. L’Islam rifiuta come una bestemmia che Dio sia da considerare “Padre”. Per loro è un despota assoluto e lontano e noi i suoi sudditi. Invece Gesù ci ha svelato la Sua identità di Padre amorevole e così anche la nostra identità di figli amatissimi. Quella scritta di Buenos Aires (“Patricio, te amo. Papà”) che ha commosso Veltroni e ha fatto scattare la felice idea dei racconti, è un fatto storico: è in realtà la “Scrittura”. E’ la Bibbia, la grande dichiarazione d’amore del Padre a Israele. Che Gesù ha rivelato essere una dichiarazione d’amore per ciascun uomo. “Padre nostro”, così comincia la preghiera che ci ha insegnato. E’ il Padre appassionato che nella Bibbia dice a te e a me: “non ti dimenticherò mai”.

Il nuovo libro di Veltroni sembra avere ancora come tema la ricerca a ritroso di un figlio negli eventi che portarono alla morte del padre. Vedremo se il narratore avrà la mano felice, leggera e commossa, che ebbe in “Senza Patricio” (nome, peraltro, che contiene la radice di “pater”).

La figura del “padre” era ritenuta un tempo “di destra”. Con il ’68 furono fatti fuori ad un tempo, e non a caso, il padre e Dio. La Sinistra è nata da quella stagione che ha fatto naufragio e ora è orfana. Un suo filosofo di rilievo come Gianni Vattimo lamenta che – con il crollo di Marx e del positivismo – “cadute le ragioni filosofiche dell’ateismo”, si sia rimasti atei per abitudine. Senza porsi domande. Ma le domande vere si fanno spazio in qualche modo. E nelle pagine di Veltroni dalla ricerca del padre traspare questa nostalgia di Dio, questa sua angosciosa mancanza.

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