Mistero buffo

Per l’esposizione a Milano della “Conversione di Saulo” del Caravaggio, il Corriere della sera (14/11) ha realizzato uno speciale che si apre con un surreale pezzo di Dario Fo.
L’attore, improvvisatosi storico del cristianesimo, afferma che Saulo (cioè san Paolo) “era presentato negli Atti degli Apostoli come agente della repressione romana”.
E dove? E’ uno scoop clamoroso o una corbelleria? Giudicate voi. Gli Atti recitano: “Saulo frattanto si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene…”.

Come si vede Saulo, prima della conversione, agiva come zelante fariseo, in accordo con le autorità del Tempio, non con i romani.
Del resto è noto che le persecuzioni romane cominceranno solo 40 anni dopo, con Nerone.
Ma come se non bastasse Fo rincara la dose su Paolo: “un ebreo che svolgeva il compito di confidente delatore dei persecutori dei cristiani. Insomma un infiltrato spione”.
Spione di chi? Infiltrato dove? Di che parla? Sembra che Fo sia quasi all’oscuro della storia di Paolo e costruisca un personaggio di fantasia.
Tanto che più avanti arriva a scrivere: “il fratello di Gesù, Giacomo, fu tradito, denunciato dal falso seguace e quindi lapidato su ordine dei romani”.
E’ difficile sommare così tante castronerie in poche righe.
Giacomo “fratello di Gesù” viene ucciso, per iniziativa illegittima dal Sommo Sacerdote Anano che decretò la sua lapidazione nell’anno 62.
I romani non c’entrano.
E tanto meno Paolo che si è convertito 30 anni prima, sta evangelizzando il mondo, fra mille persecuzioni e si trova a Roma in catene: è alla vigilia del suo stesso martirio.

Che dire? Il Corriere disponeva di veri addetti ai lavori, su Caravaggio e Paolo, ma ha riproposto il solito addetto ai livori contro la Chiesa.
Ogni occasione è buona per attaccarla, come ha spiegato Ernesto Galli della Loggia in uno splendido editoriale (Corriere 3/11).
Infatti anche stavolta Fo tira in ballo, a sproposito, l’Inquisizione, che non risulta entrarci niente con questa tela del Caravaggio.
Ma l’inserto del Corriere si presenta titolato così: “I colori dell’ira nel quadro che fu censurato”, “Un dipinto scomodo ai tempi del’inquisizione. E Caravaggio lo rifece”.
Ma quale Inquisizione e censura? Pure sul rifiuto dell’opera da parte del committente le cose stanno ben diversamente.

Mistero vero

Giuseppe Frangi che, nel suo blog, parla di “baggianate” a proposito dell’articolo di Fo, spiega: “Il quadro Odescalchi non è figlio di un rifiuto della committenza, per il semplice motivo che il committente, come ha dimostrato Luigi Spezzaferro, aveva visto e approvato un bozzetto dell’opera (di ‘specimina’ si parla nel contratto) e che era morto poco dopo la firma del contratto”.
Frangi accenna invece a un enigma di “carattere stilistico” che già Roberto Longhi intuì.
“Tra l’altro dalla tavola (che era prevista dal contratto) Caravaggio passa poi alla tela per la versione definitiva. Spezzaferro sintetizza dicendo che doveva essersi trattato di un caso di ‘autorifiuto’ da parte di Caravaggio”.
Del resto l’opera sarà comunque acquistata da un cardinale.
Altro che Inquisizione! Nel passaggio da questa prima tela alla seconda Caravaggio coglie davvero il cambiamento della conversione: nella prima infatti Paolo si copre gli occhi, abbagliati dalla luce di Gesù, per “difendere la propria umana fisicità e opporre così l’ultima e istintivamente naturale possibilità di resistenza all’incomprensibile e insopportabile forza che l’ha colpito” (Spezzaferro).

Nella seconda versione, oggi a Santa Maria del Popolo, quasi fosse l’istante successivo, Paolo è colto mentre spalanca le braccia, come per abbracciare fisicamente quella luce.
Qui c’è il genio di Caravaggio e il cuore del cristianesimo. Ma Fo cosa ne sa?

Fonte: © Libero – 18 novembre 2008