La visita di papa Bergoglio alla comunità ebraica di Roma è stata bella e significativa, ma ovviamente – per ragioni storiche – non poteva essere emozionante come le precedenti visite di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

L’intervento di Francesco è stato nel solco dei suoi predecessori, di cui ha anche ricordato qualche espressione.

Netta è stata la sua condanna “di ogni forma di antisemitismo” e la “condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano”.

Sacrosante parole, ma a far uscire l’incontro da una certa ovvia ritualità ha provveduto l’appassionato e toccante intervento di Ruth Dureghello, Presidente della Comunità ebraica di Roma.

LE PAROLE DI RUTH

La quale, dando il benvenuto al papa, gli ha ricordato una sua significativa dichiarazione: “un cristiano non può essere antisemita”.

Ma soprattutto gli ha ricordato che, “incontrando poche settimane fa il Presidente del World Jewish Congress, (Francesco) ha detto che ‘attaccare gli ebrei è antisemitismo, ma anche un attacco deliberato a Israele è antisemitismo’ “.

Da tempo il mondo ebraico cerca di far capire questo concetto all’opinione pubblica e al mondo intellettuale, soprattutto europeo, che condanna con orrore la Shoah, ma, in molti casi, è pregiudizialmente o ideologicamente ostile a Israele.

Per questo la Dureghello ha sottolineato con grande impeto: riaffermo con forza che l’antisionismo è la forma più moderna di antisemitismo”.

Questa dichiarazione è ciò che più irrita una certa area filopalestinese o filoaraba o filoislamica della cultura e dell’opinione pubblica occidentale, la quale non riesce a liberarsi dagli schematismi dell’ideologia.

Papa Bergoglio è un calcolatore ed è sempre molto politico nel calibrare i tempi e le circostanze dei suoi interventi.

Non si sa se ripeterebbe davanti al grande pubblico le parole, molto significative, che rivolse al Presidente del World Jewish Congress.

Ma con la visita di ieri – grazie a Ruth Mereghello – sono diventate di fatto sue parole pubbliche ed ufficiali.

IMBARAZZO PAPALE

Ora bisognerà renderle compatibili con altre parole e altri gesti di papa Bergoglio, a partire da quelli compiuti durante la visita all’Autorità palestinese, quando andò in silenzioso pellegrinaggio polemico al muro costruito dagli israeliani per proteggersi dai continui attentati, un muro che effettivamente aveva messo fine alle stragi con esplosivi.

Anche se le violenze sono di nuovo riesplose in queste settimane che hanno visto attacchi ai civili ebrei con coltelli e auto.

Per questo la Presidente della comunità ebraica di Roma ha sottolineato che per realizzare davvero l’auspicio di pace che il papa ripeté durante la sua visita in Israele e nei territori palestinesi “dobbiamo ricordare che la pace non si conquista seminando il terrore con i coltelli in mano, non si conquista versando sangue nelle strade di Gerusalemme, di Tel Aviv, di Ytamar, di Beth Shemesh e di Sderot. Non si conquista scavando tunnel, non si conquista lanciando missili. Possiamo affrontare un processo di pace contando i morti del terrorismo? No. Tutti noi dobbiamo dire al terrorismo di fermarsi. Non solo al terrorismo di Madrid, di Londra, di Bruxelles e di Parigi, ma anche a quello che colpisce ormai tutti i giorni Israele. Il terrorismo non ha mai giustificazione”.

Parole che suonano implicitamente critiche di chi – di fronte a episodi di terrorismo – evoca spiegazioni economiche o presunte ingiustizie o altre ragioni improponibili. Ma sono anche parole che invitano a non fornire attenuanti assurde.

Inevitabilmente il pensiero va al 16 gennaio 2015, dopo la strage islamista di Parigi alla redazione di Charlie Hebdo, quando papa Francesco, interrogato sui limiti della libertà di espressione (in riferimento alle vignette satiriche sull’Islam) e della libertà di religione, aveva risposto: “Credo che tutti e due siano diritti umani fondamentali. Non si può uccidere in nome di Dio, questa è una aberrazione”, tuttavia bisogna usare la libertà di espressione “senza offendere. Perché è vero che non si può reagire violentemente. Ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro mia mamma, si aspetta un pugno. Non si può provocare, non si può insultare la fede degli altri”.

Parole che furono pronunciate dal papa certamente con buone intenzioni, per richiamare tutti al rispetto degli altri, ma che rappresentano obiettivamente una gaffe.

Perché un papa non può teorizzare una risposta violenta (sia pure solo “un pugno”) a un’eventuale offesa verbale.

E poi perché quelle sue parole potevano essere scambiate (e di fatto lo furono da certi gruppi islamici) per una qualche giustificazione della reazioni violente. Che invece non hanno nessuna attenuante.

Del resto i terroristi non hanno bisogno di vignette o di “offese alla mamma” per considerare nemico e uccidere chi pensa o vive diversamente da loro o chi non si sottomette a loro.

La Dureghello, ancora rivolta al Papa, ha aggiunto: “La lezione dell’odio che porta solo morte è davanti agli occhi di tutti. Lo insegna la storia recente e quella meno recente. Lo ha visto Lei con i suoi occhi a Buenos Aires che ha conosciuto il terrore antisemita il 18 luglio del 1994: ottantacinque morti e oltre duecento feriti. Molti si chiedono se il terrorismo islamico colpirà mai Roma. Signori, Roma è già stata colpita. Un solo nome: Stefano Gaj Taché z.l, due anni, 9 ottobre 1982. L’odio che nasce dal razzismo e trova il suo fondamento nel pregiudizio o peggio usa le parole ed il nome di Dio per uccidere, merita sempre il nostro sdegno e la nostra fede una condanna”.

BASTA COL SILENZIO

A questo punto l’intervento della Presidente della comunità ebraica si è fatto ancor più sincero e drammatico:

“Papa Francesco, oggi abbiamo una grande responsabilità di fronte al mondo. Di fronte al sangue sparso dal terrore in Europa e in Medio Oriente, di fronte al sangue dei cristiani perseguitati e agli attentati perpetrati contro civili inermi anche all’interno dello stesso mondo arabo, di fronte agli orrendi crimini compiuti contro le donne. Non possiamo essere spettatori. Non possiamo restare indifferenti. Non possiamo cadere negli stessi errori del passato, fatto di silenzi assordanti e teste voltate. Uomini e donne che rimasero immobili davanti a vagoni stipati di ebrei spediti nei forni crematori”.

E’ un vero appello quello della Comunità ebraica romana, reso ancora più drammatico dalla concomitanza, proprio ieri, nelle stesse ore, di molti episodi di terrorismo in diversi Paesi.

Si tratta di capire se papa Francesco, che nei mesi scorsi è parso assai passivo, anche di fronte alla tragedia dei cristiani perseguitati e massacrati, è rimasto toccato da questo impetuoso discorso e se sarà indotto a riflettere, ad essere meno soft nei confronti del mondo islamico e anche nella difesa dei cristiani perseguitati e nella difesa di Israele costantemente sotto minaccia terroristica.

L’enormità della sfida in corso – che non può e non deve diventare uno scontro di civiltà – esigerebbe risposte forti ed elevate e leader capaci di guidare tutti gli interlocutori e i diversi popoli per strade nuove.

Giovanni Paolo II fu certamente un uomo così, come pure Benedetto XVI con il magistrale e profetico discorso di Ratisbona.

Probabilmente non è casuale che Ruth Dureghello abbia ricordato con particolare affetto Giovanni Paolo II ed Elio Toaff e abbia addirittura “chiamato” l’applauso per Benedetto XVI (“un caloroso saluto voglio indirizzarlo al papa Emerito Benedetto XVI”).

A papa Bergoglio è chiesto il coraggio di un cambiamento profondo: quello di preferire la verità al successo mediatico.

.

.

Antonio Socci

Da “Libero”, 18 gennaio 2016

 

@AntonioSocci1

Facebook: “Antonio Socci pagina ufficiale”

Print Friendly, PDF & Email