“Che fa e che dice Berlusconi?”, si chiedeva ansiosamente Paolo Guzzanti, domenica, in un articolo dedicato alla paralisi del centrodestra.
La risposta è arrivata a tamburo battente da un sito di gossip: è al telefono. Con chi? Con Putin? Con Bush? No, molto più in alto. E’ al telefono – c’informa Dagospia – con tal Lucio Presta, manager di Elisabetta Gregoraci che ora “sarà nel cast di Buona Domenica”.
Se la notizia è vera complimenti. Salvare le fanciulle indigenti dalla povertà è un’opera da buon samaritano. Ma qualche domanda sul “buon politico” si pone.
A parte la storia della “mera proprietà” che dovrebbe tener lontano il Cavaliere dalle sue tv, non è sicuro che il 50 per cento degli italiani che hanno votato centrodestra oggi gli chieda esattamente di occuparsi delle sorti lavorative della Gregoraci o di organizzare feste sulla Costa Smeralda.
Ha ragione Alba Parietti che l’ha conosciuto come demiurgo dell’estate sarda: “Berlusconi è simpaticissimo”. Ma anche perché è l’unico italiano che non parla di politica.
Milioni di elettori lo preferivamo come protagonista del villaggio globale anziché animatore del villaggio vacanze: le mirabolanti cronache delle sue feste pirotecniche, con i vulcani in eruzione, i duetti con Apicella e quelli con la stessa Parietti, hanno riempito le pagine dei quotidiani (come la performance marocchina in costume a Marrakech).
Ho già scritto che c’è il rischio di confondere don Sturzo con don Lurio. Abbiamo invocato qualcuno che facesse come Nanni Moretti in piazza Navona: strapazzare i capi supremi a cominciare dal Cavaliere che ha perso la guerra elettorale e ora sta a Porto Rotondo a cantare “Que reste-t-il de nos amours/ Que reste-t-il de ces beaux jours”.
Adesso qualcosa si muove. Paolo Guzzanti e Giuliano Ferrara hanno il mal di pancia.
Il primo ha chiamato il ceto medio alla rivoluzione, ma poi se l’è presa solo con “il partito a livello locale che è un disastro”.
Non mi pare che il problema di Forza Italia sia il segretario di Canicattì. Guzzanti ha avuto anche il coraggio di porre qualche domanda scomoda a Berlusconi (dove sia e cosa faccia), ma non prende di petto il problema: possibile che dopo una tale disfatta elettorale e la cacciata all’opposizione non si sia vista una direzione o un congresso del partito di maggioranza, né si parli di ricambio?
Possibile che non sia stato dato un giudizio politico, né elaborata alcuna strategia?
Ma che partito è? E che democrazia è?

Il partito com’è noto prefigura il modello di Stato che si vorrebbe e se guardiamo Forza Italia l’unico modello istituzionale che viene in mente è la Francia di Re Sole.
Forza Italia – ricordiamolo – è il partito di maggioranza relativa oggi in Italia, non un gruppetto di collezionisti di farfalle.
Ma sarà un normale partito occidentale solo il giorno in cui si voterà democraticamente e magari Berlusconi andrà in minoranza o – quantomeno – avrà una maggioranza risicata e un’opposizione interna.
Possibile che si debba avere addirittura del coraggio, in Forza Italia e nel centrodestra, per esprimere una critica a Berlusconi?
Per carità, sono il primo a riconoscere i suoi meriti storici e le sue qualità personali (molto più grandi di quanto lui stesso mostri).
E penso che abbia ancora molto da dare al Paese. Ma – caspita – non è il Padreterno. E ha appena perso le elezioni. E non può decidere tutto lui, da solo. E il centrodestra non è sua proprietà privata. Così come la metà dell’Italia che ha votato Casa delle libertà non è sua. Non si può capeggiare uno schieramento liberale mettendo al bando gli uomini liberi e con la schiena diritta.

Dalla libertà abbiamo tutti da guadagnare. Anche Berlusconi. E alla vigilia del suo settantesimo compleanno s’impone – con la prospettiva di cinque anni di opposizione – il problema della leadership.
Non è possibile che il Cavaliere si immagini fra cinque anni, a 75 anni, di nuovo candidato per la quinta volta.
Perfino Giuliano Ferrara ieri sul Foglio si è posto il problema. Lo ha fatto con simpatia. Suggerendogli, ormai alla vigilia dei 70, di inventarsi una pagina nuova, magari rinunciando “al ruolo di manager della sua coalizione e diventando l’azionista di riferimento di un pezzo di società”.
E’ una bella idea. Uno come il Cavaliere, che è riuscito nell’impresa di dare una casa ai moderati italiani, in pochi mesi, di portarli al governo, di sdoganare finalmente una sana cultura liberale, uno che per cinque anni ha rappresentato l’Italia nel mondo, insomma uno statista, oltretutto coraggioso e innovativo com’è stato in politica estera, dovrebbe adesso coltivare ambizioni all’altezza di questo vissuto. Magari internazionali.
E lanciare grandi idee, grandi iniziative, per esempio in campo umanitario o culturale o della ricerca o della solidarietà. E non riempire con performance mondane le cronache estive e quelle dei tg (imbottite di dichiarazioni dell’incredibile Gianfranco Rotondi per far sparire Fini e Casini).
C’è una ragione in questa sua estate pirotecnica? Probabilmente sì e si chiama Mediaset.
Se Berlusconi se ne sta in Sardegna e lascia i vari Guzzanti orfani di una strategia e di una politica è perché probabilmente è impegnato in una tacita partita a scacchi con il centrosinistra per la legge sul conflitto di interessi e le tv, tenendosi aperte le due opzioni: l’inciucio o la guerra totale. Così però consegna di fatto alla maggioranza l’arma per paralizzare il centrodestra.
Mediaset è una grande azienda che non deve essere punita e danneggiata, ma il centrodestra non dovrebbe impiccarsi alle antenne di Mediaset.
Se accetta questa situazione state sicuri che la minaccia di questa legge verrà agitata a lungo come una spada di Damocle e il governo si guarderà bene dal varare una legge sull’incompatibilità fra politica e concessioni governative (altrimenti toglierebbe le castagne dal fuoco alla Casa delle libertà e regalerebbe al Cavaliere l’immagine del martirio).
Per la CDL è il viale del tramonto. Anzi, il caviale del tramonto, modello Billionaire.
Brutta storia. Soprattutto vedendo in Francia l’entrata in campo di Sarkozy come leader dei moderati per l’Eliseo. Rinnovamento, grandi idee e nuovi orizzonti. Non più la boria di Chirac e il suo laicismo, ma grande attenzione alla cultura cristiana e alla modernità.

L’esordio provocatorio è stato fatto con un attacco al ’68 di cui i giovani attuali pagano il conto. Ce n’est qu’un début. Un grande intellettuale ebreo-francese, un vero anticonformista, Alain Finkielkraut ne “L’Imparfait du présent” ha trafitto la generazione oggi al potere anche da noi, di rivoluzionari da salotto: “E’ schiumando di rabbia contro il fascismo in piena ascesa che l’arte contemporanea fa man bassa delle istituzioni culturali. Non c’è nessuna fessura nella corazza dei fortunati del mondo post-sessantottino. Hanno lo stereotipo sulfureo, il cliché ribelle, l’opinione sopra le righe e più buona coscienza ancora che i notabili del museo di Bouville descritti da Sartre ne ‘La Nausea’. Perché essi occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del Maestro, e quello, prestigioso, del Maledetto.
Vivono come una sfida eroica all’ordine delle cose la loro adesione piena di sollecitudine alla norma del giorno. Il dogma, sono loro; la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro rari avversari. In breve, coniugano senza vergogna l’euforia del potere con l’ebbrezza della sovversione. Stronzi”. Si può fare come in Francia?

Fonte: © Libero – 5 settembre 2006

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