Torna da domani il Festival di Sanremo. Quanto esprime l’Italia attuale? Essendo un festival della canzone italiana, peraltro seguito in diversi paesi del mondo, è significativo anche per l’immagine del nostro Paese. Quindi è interessante capirne i connotati.

Il festival – a parte il contorno che è spettacolo – è fatto di parole e di musica. La musica si può sentire seguendo le varie serate. Le parole invece si conoscono già. Di solito Sanremo in passato veniva guardato con ironico snobismo dalle élite e da chi esigeva “l’impegno”, per le sue tante canzoni cuore/amore/dolore. È così anche oggi?

Lorenzo Coveri, che da anni analizza i testi delle canzoni del Festival sui social dell’Accademia della Crusca, nota che in effetti ricorrono ancora “amore, vita e cuore”.

Del resto i termini più frequenti sono sempre quelli da decenni: “la parola ‘amore’ – spiega il professore – si trova nel 47,9 per cento, è di gran lunga la più usata di sempre nel lessico canzonettistico. Su 2122 in totale, sono 1052 quelle con la parola amore, il podio si compone con le 688 vita, poi cuore, cuori, mondo, giorno, notte”.

Ma non riflette la nostra cultura? La statistica di Coveri mostra che pure la canzone italiana – come la letteratura alta, da secoli – è intrisa di petrarchismo. Lo spiegò Mario Luzi in un suo famoso scritto: “la nostra letteratura procede piuttosto da Petrarca che da Dante”.

Siamo figli di una tradizione letteraria in cui è prevalsa la linea introspettiva, la narrazione dell’interiorità, spesso una compiaciuta contemplazione dei sentimenti nelle loro tante sfumature, sulla concretezza epica, la precisione e la potenza narrativa dantesca.

Certo, Sanremo non è il Parnaso con le Muse e la fonte Castalia, è un teatro di cultura popolare e ha adeguato questo orizzonte psicologico “petrarchesco” alla sensibilità e alla realtà degli italiani dal dopoguerra a oggi.

Come riconosceva ieri Ernesto Assante, con qualche ironia, su Repubblica, “il pubblico ci dice, da tempo e con chiarezza inaudita, che ama i buoni sentimenti”, lontano da estremismi e ideologie.

Il “Paese reale”, sostiene Assante, è quella “maggioranza silenziosa”, fatta di “persone perbene, persone normali, persone tranquille”, che certamente “rifiuta le posizioni inutilmente radicali”, ma – secondo lui – non si è “scandalizzata del bacio tra Fedez e Rosa Chemical”. Più probabilmente ha classificato il tutto come “spettacolo”, passato con una certa disattenzione.

Negli ultimi decenni c’è stata anche, da qualche parte, la tentazione di usare il grande palcoscenico di Sanremo per invettive politicamente corrette con molto moralismo predicatorio. Forse quest’anno no, o assai meno.

In ogni caso il grande pubblico guarda Sanremo per divertirsi sentendo belle canzoni, non è smanioso di abbeverarsi all’oratoria politico-moraleggiante.

Il Festival viene considerato “nazionalpopolare” dall’élite intellettuale, che lo ritiene di basso livello culturale, ma in realtà la tradizione popolare assorbe da sempre per osmosi la cultura alta e proprio attraverso il canto.

Cinquant’anni fa, Roberto Leydi, nel suo “Canti popolari italiani”, spiegava che “nell’800 i gondolieri veneziani cantavano le ottave del Tasso e di altri poeti cavallereschi”, uso che è proseguito nel Polesine fino al Novecento e, proseguiva, “la tradizione di intonare i testi classici della nostra letteratura – dal Tasso all’Ariosto e anche la Commedia – rimane ancora nell’Italia centrale, soprattutto fra la Toscana e il Lazio”. Si potrebbero poi ricordare le tenzoni in ottava rima fra i cantori popolari e anche le laudi religiose.

La cultura popolare, soprattutto attraverso la musica, ha assimilato i classici non potendone disporre per via libraria, anche perché, fino a cento anni fa, la percentuale di analfabetismo era alta.

Il melodramma è stato un altro strumento di diffusione del grande romanzo. Basti pensare al Rigoletto e l’Ernani di Verdi che arrivano da Victor Hugo o la Lucia di Lammermoor di Donizetti da Walter Scott.

Lo ricordano Maurizio Stefanini e Marco Zoppas in “Da Omero al rock”mentre sottolineano che il melodramma “è stato uno dei più grandi lasciti culturali dati dall’Italia al mondo”, almeno nei tempi moderni.

“Fatte le dovute proporzioni” aggiungono i due autori “il melodramma nell’Italia del XIX secolo ebbe il ruolo che avrebbero avuto il cinema e la radio nella prima metà del XX secolo, e la televisione nella seconda” (il riferimento è ai “grandi classici della letteratura mondiale”, a cui avevano già attinto i librettisti, che furono portati sullo schermo dalla tv di Bernabei).

In ogni caso il melodramma – a dispetto delle ironie delle élite intellettuali sulla presunta natura melodrammatica del nostro carattere nazionale – è apprezzatissimo nel mondo.

È di questi giorni lo strepitoso successo conseguito all’Abu Dhabi Festival da un’esecuzione di brani pucciniani. Alberto Mattioli, che ne ha scritto sulla Stampa, precisava che la platea, che ha tributato una standing ovation a Puccini, era internazionale (molti asiatici).

Fa riflettere. Oltretutto quest’anno è il centenario della morte di Puccini. Quella che chiamiamo “la canzone italiana” viene anche da lì, oltreché dalla tradizione popolare.

Da qualche tempo a Sanremo c’è qualcosa d’altro e pure nell’edizione 2024 saliranno sul palco rapper o trapper. Nel mondo della musica molti ritengono che il rap non sia adatto a un Festival che predilige la melodia. In passato si è anche discusso sui testi delle canzoni.

Il rap – con quello che ne deriva – è una forma espressiva importata. Com’è noto è nato nella comunità afroamericana e ispanoamericana di New York negli anni Settanta: è un parlare sincopato, più o meno in rima e in gergo, con un base musicale minima. È un fenomeno arrivato in Italia qualche anno fa, ma che sembra sia diffuso oggi particolarmente fra i giovanissimi immigrati, magari di seconda generazione.

È la modernità? Viene da sorridere se si pensa alle paradossali e curiose somiglianze che si potrebbero trovare con il “recitar cantando” della cinquecentesca Camerata dei Bardi: quei dotti fiorentini erano persuasi “che la melopea dell’antica poesia greca” spiega Massimo Mila “si potesse rinnovare rinunciando radicalmente alle complicazioni del contrappunto e piegando la monodia – cui già tendeva la musica del tempo – a una diligente recitazione che mettesse perfettamente in luce la parola e ne amplificasse, col suono, il significato”.

Proprio da questa sperimentazione erudita poi sboccerà il melodramma. Al contrario del rap che nasce, nei quartieri americani più problematici, come grido di rivolta di fasce di popolazione socialmente e culturalmente emarginate. Anche se oggi è diventato un prodotto di consumo come le altre forme musicali.

In ogni caso le infinite contaminazioni fra cultura alta e tradizione popolare sconsigliano di snobbare la canzone come sottoprodotto di poca importanza.

E poi da quando, nel 2016, il Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato a Bob Dylan, le barriere sono crollate.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 5 febbraio 2024