Una ventata di signorilità ha investito l’Italia. E, fra un festival filosofico e l’altro, “intellettuali e pensatori si sono affrettati o accodati a commentare il trasgressivo successo” del Vaffanculo di Grillo. Così segnala Alberto Arbasino che ora annuncia l’ “imminenza dell’altrettanto blasonato e secolare ‘vai a cagare’ ”, con tanto di “lectio magistralis” e “diplomi honoris causa”.

Domenica è intervenuto nell’alto dibattito Umberto Bossi che, secondo la cronaca di Repubblica, al comizio di Venezia si è avventato sull’eroe dei due mondi definendolo “quel cretino di Garibaldi”, quindi l’ha promosso “lacché dei Savoia”, poi “balordo” e infine “coglione”. Bossi ha concluso la raffinata prolusione invitando a liberarsi di “questi stronzi”.

Va detto che Bossi non si è mai proposto con i modi di un Lord inglese. E’ sempre stato così (per me deprimente). Ma la Sinistra che si scandalizza come se fosse la signorina Molly (vedi l’Unità di ieri), dimentica che il fondatore della Sinistra italiana, il colto Palmiro Togliatti, firmava editoriali sull’Unità intitolati “Ma quanto sono cretini” (riferito agli americani), parlava di due dirigenti dissidenti del partito come “pidocchi” che anche “la criniera del più nobile destriero può avere” e nel celebre comizio di Piazza San Giovanni, per le elezioni del 1948, pregustando la vittoria preannunciò un “calcio nel sedere” a De Gasperi (e non è che i comunisti a quel tempo si fermassero ai calci). Anche da parte liberale talora non si era da meno con le parole: Ernesto Rossi definiva “bischeri” e “utili idioti” gli intellettuali frontisti.

Tuttavia oggi non è più in discussione il turpiloquio episodico di questo o quel politico, ma il turpiloquio come politica visto che il centrosinistra si è avvitato attorno al “Vaffanculo Day” di Beppe Grillo che sta per promuovere pure liste civiche alle Comunali.

Si assisterà dunque a una fioritura di “Liste Vaffanculo”. E poi? Sarà la volta di liste analoghe? Dobbiamo aspettarci una loro versione regionalista? Vedremo liste “Vai a mori’ ammazzato”, “li mortacci”, “brutti pirla” e “a sorate” ? E i simboli? Saranno raffigurati gesti dell’ombrello, lingue spernacchianti, corna, natiche e il dito medio sollevato?

Non riesco a esserne entusiasta. Sebbene non mi bastino nemmeno le buone maniere, quando coprono una pessima politica. Lo stile ovattato, sussiegoso e sussurrato di altri politici può essere (e spesso è) la maschera ipocrita di un’arroganza e una pericolosità ben maggiore del linguaggio scurrile. Ma se si pensa che il mondo, in queste ore, sta letteralmente appeso all’annuncio di una guerra con l’Iran che potrebbe essere nucleare e al rischio di crollo del sistema economico mondiale per il problema dei mutui, avere un Paese come l’Italia la cui classe politica discute del Vaffanculo di Grillo ti appare una botta di allegria. O di disperazione.

Va detto che la parolaccia e il turpiloquio dilagano già in televisione e anche fra noi giornalisti e intellettuali. Di recente ho letto l’articolo di un saggista, anche intelligente, secondo cui la vita dei moderni finisce per essere un “mangiare la propria merda”, che non è precisamente il “Da-sein” heideggeriano.

Non che sia sempre proibito ricorrere alla parolaccia. Tuttavia nel discorso pubblico c’è un’arte e una sintassi anche della parolaccia. Va usata quando ci vuole e come ci vuole. Quando il turpiloquio dilaga e annulla ogni ragionamento, la carica sovversiva, libertaria e catartica della parolaccia svanisce e resta solo il fastidio della volgarità gratuita, la sensazione che la parolaccia copra in realtà una povertà linguistica e culturale. Infine un’impotenza politica.

La parolaccia, limitata e calibrata, può essere espressiva ed eloquente più di un discorso argomentato. Del resto l’hanno usata i più grandi scrittori nei loro capolavori. Da Shakespeare a Dante e a Cervantes che fa inveire così Sancho: “Signor villan fottuto spudorato!Figliuol d’una puttana! Farabutto!”, e poi “puzzone, volponaccio e cretino!”.

Nell’armonia di un grande poema, che racconta la commedia umana, non stona. Fa invece malinconia quando la parolaccia diventa lo sfogo della depressione, della frustrazione o dell’angoscia dell’invecchiare. E’ il caso di Gustave Flaubert che, in là con gli anni, si fece sempre più misantropo, prese a odiare la politica, il mondo moderno e l’universale “imbecillità” del genere umano. Vergava lettere di questo tenore: “Non posso parlare con nessuno senza infuriarmi. Sto progettando un libro in cui cercherò di sputare la mia bile”; “mi piacerebbe non morire prima di aver vuotato qualche altro secchio di merda sulla testa dei miei simili”.

Saggiamente Turgenev gli rispondeva: “No, amico mio, non è così difficile sopportare la nostra epoca: è il generale tedium vitae la noia e il disgusto per ogni attività umana, non ha niente a che fare con la politica che dopotutto non è più di un gioco: è la tristezza di avere cinquant’anni”.

E così, a dare ascolto a Turgenev, anche nell’universale volgarità di un Paese flaubertiano, malato di cinica senilità, fanno capolino l’angoscia della morte e quelli che Dostoevskij chiamava “i problemi maledetti”. O meglio: il benedetto, insopprimibile assillo sul senso della vita.

Antonio Socci

Fonte: Da “Libero”, 18 settembre 2007

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