Moltissimi film, da un secolo a questa parte, hanno rappresentato l’opera di Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo che continua a riscuotere un enorme interesse, infatti anche due recenti serie tv, su Rai 1 e su Canale 5, hanno avuto uno strepitoso successo.

Pur essendo un romanzo popolare, contiene probabilmente notevoli riferimenti colti. Alcuni critici per esempio vi hanno intravisto, in filigrana, allusioni sorprendenti che vanno dalla Divina Commedia ai simbolismi illuministi ed esoterici della Francia del XIX secolo. Ma non voglio parlare del contenuto del romanzo, bensì del titolo che rimanda alla bella isola di Montecristo. È una delle perle di quell’Arcipelago toscano che, per la sua bellezza naturalistica, non ha nulla da invidiare ai leggendari mari del sud.

Oggi fa parte del Parco nazionale dell’arcipelago ed è quasi inaccessibile. Del resto già nel V secolo d.C. queste isole ospitavano eremiti e monaci, come testimonia nel De reditu suo Rutilio Namaziano che, essendo di cultura pagana, non capiva la rinuncia al mondo di quegli “strani” uomini.

Proprio per quella lontananza dai tumulti della cronaca terrena, fra l’azzurro del mare e quello del cielo, vi fiorì il monachesimo fino al Medioevo. Nell’isola di Montecristo restano i ruderi del Monastero di San Salvatore e San Mamiliano(prima benedettino e poi camaldolese) che fu abbandonato verso il 1500.

Attorno ad esso nacquero le leggende di un tesoro nascosto, quello che in seguito fornì a Dumas lo spunto per il suo romanzo. Ma già nel XVI secolo il granduca di Toscana intimava a tutti di non avventurarsi sull’isolotto in cerca di quel tesoro perché era infestato da pirati.

La personalità storica a cui è legato il luogo è quella dell’eremita san Mamiliano, che pare sia stato catturato dai Vandali verso il 450 e sia poi sfuggito, riparando su quest’isola per fare vita eremitica. Morì nel 460 d.C.

La sua figura è legata a una leggenda popolare riportata nel libro I Draghi di Toscana (Press & Archeos) curato da Francesco Monaci, Enio e Lorenzo Pecchioni e Bernardo Tavanti.

Nel primo anno del suo eremitaggio, “al solstizio d’estate, giunsero dalla costa decine di barconi con centinaia di persone: erano pagani che portavano una vergine cristiana per sacrificarla a un drago che si dice vivesse nelle viscere dell’isola. Quel giorno, forse indispettito dalle superstizioni di quel popolo ignorante, Mamiliano decise di salire sulla cima dell’isola per salvare la giovane donna e affrontare il drago armato soltanto di una croce”.

La leggenda allude probabilmente ad antichi culti sacrificali pagani. Il suddetto “drago” potrebbe essere stato un grosso serpente o altro. Qualcosa di spaventoso. Il santo vinse il combattimento, fu così che mostrò la forza della fede cristiana e il Monte Giove divenne Monte Cristo.

Dopo che morì, in fama di santità, arrivarono altri monaci che costruirono i loro insediamenti e conservarono le sue spoglie. L’eremita da allora è venerato come protettore nelle isole dell’Arcipelago e in tutta la Maremma. Nel Duomo di Sovana – di cui san Mamiliano è patrono – si trova una presunta tomba del santo.

In anni recenti tutta questa vicenda ha avuto uno sviluppo sorprendente. Proprio a Sovana, nel 2004, mentre venivano effettuati degli scavi archeologici, in un’antica chiesa è stato ritrovato un tesoro di 498 monete d’oro databili tra il 457 e il 474 d.C. La chiesa che per secoli le aveva nascoste è intitolata proprio… a San Mamiliano. È il leggendario tesoro di Montecristo?

 

Antonio Socci

Da “Libero”, 8 marzo