L’uomo di spirito (stavolta senza riferimenti al paranormale) è Romano Prodi.
E’ fantastica la noncuranza con la quale ieri ha fatto buon viso alla manifestazione “contro il governo” che è stata allestita dai partiti del suo stesso governo. Ha detto che “c’è la libertà di manifestazione politica”. Come se la cosa non lo riguardasse. Chiunque al suo posto avrebbe avuto uno scatto di dignità, di orgoglio, di senso del ridicolo: avrebbe sbattuto la porta e se ne sarebbe andato. Ma lui no: la poltrona innanzitutto. “Resistere, resistere, resistere”. Che spettacolo!

Tutto il comportamento di Prodi in questa vicenda è stato memorabile: è uno degli episodi più surreali di questi anni. Prima il premier cercò di esorcizzare il guaio della base americana di Vicenza derubricandolo a fatto “urbanistico” locale (come se la politica estera dell’Italia dovesse essere decisa dal geometra municipale della città veneta). Poi, dopo il
pesante voto parlamentare del 2 febbraio, assicurò che andava tutto bene. In effetti il governo scoppiava, ma non di salute, di contraddizioni. Quel giorno la relazione al Senato del ministro Parisi (dove veniva finalmente esplicitato il “si” del governo all’allargamento
della base) fu approvata dall’opposizione, mentre la coalizione di centrosinistra votò contro (152 sì, 146 no e 4 astenuti). Una batosta clamorosa. Ma Prodi restò indifferente.

Infine l’ultima botta di spirito prodiana è arrivata alla vigilia della manifestazione quando il premier ha chiesto ai suoi ministri e ai sottosegretari – almeno loro – di non scendere in piazza contro il governo di cui fanno parte, ma di lasciare che a protestare fossero “solo” i loro partiti, i leader e i parlamentari della maggioranza. In effetti è andata così.
A Vicenza – spiega Diliberto durante il corteo – ci sono “tutte le bandiere dei partiti dell’Unione: ci sono bandiere della Margherita, dei Ds, della Cgil come del Pdci e di Rifondazione”. Il deputato di Rifondazione Francesco Caruso, ex leader dei Disobbedienti, proclama: “Oggi è una grande giornata di lotta contro il governo”. E Prodi fa spallucce.
C’è un Paese nel mondo in cui la maggioranza boccia il governo in Parlamento e poi va in piazza a protestare contro il suo stesso governo? C’è un Paese dove un esecutivo così delegittimato non si dimetta per rispetto dei cittadini e delle istituzioni? Sì, ce n’è uno solo: il nostro. Nessun altro.

E accade perfino di peggio. Paolo Cento – paladino dei Centri sociali e incredibilmente Sottosegretario all’Economia – alla vigilia della manifestazione paventava la possibilità che per le strade di Vicenza potessero esserci “infiltrati” che provenivano da “pezzi delle istituzioni” che “lavorano per creare incidenti”.
Si è dimenticato che al governo c’è lui, che anche lui rappresenta lo Stato e “le istituzioni”. E se è a conoscenza di “pezzi delle istituzioni” che ordiscono trame criminali ha il dovere di agire e anche di fare i nomi alla magistratura, non di screditare sui giornali “le istituzioni” con accuse destabilizzanti quanto vaghe.
Quale dirigente di una società che produce – per dire – merendine potrebbe allegramente dichiarare ai giornali – senza che succeda nulla, senza trarne conseguenze – che nelle sue fabbriche può esserci chi mette il veleno in quelle merendine?

Del resto Paolo Cento non è l’unico a recitare due parti in commedia. Il deputato di Rifondazione comunista Salvatore Cannavò, paventando anche lui incidenti, venerdì dichiarava: “Qualunque cosa succeda, sarà responsabilità delle istituzioni”. Già. Ma non è il suo leader, Fausto Bertinotti, a presiedere la più alta e rappresentativa delle istituzioni della repubblica, la Camera dei deputati? E non è lui, Cannavò, che sta nella
maggioranza che governa queste istituzioni?
E’ lo stesso Cannavò che a Radio Radicale ha rivelato di non aver applaudito – mercoledì scorso – quando il ministro Amato ha chiesto alla Camera solidarietà per le forze dell’ordine. Questa è la Sinistra italiana. Con una mano (ministeriale) manda i poliziotti in piazza e con l’altra li delegittima (a volte la sinistra estrema li mena pure).

Rifondazione comunista intitola la sua sala in Senato a Carlo Giuliani e fa parte del governo da cui la polizia prende ordini. L’assurdità della situazione è sotto gli occhi di tutti. Il ministro Di Pietro sentenzia: “la maggioranza ha un problema: c’è chi vuol stare con due piedi in una scarpa”. A dire il vero si dovrebbe dire “con il piede in due scarpe”, ma la sostanza non cambia. Anzi, a ben vedere accade molto di peggio: vogliono essere l’incendiario e il pompiere, l’ordine e il disordine, i liberalizzatori e gli oppositori al “pensiero unico liberista”, i filoamericani e gli antiamericani, i pacifisti e i fidati alleati degli “yankee guerrafondai”. E non da oggi (il comunista Giordano di Rifondazione
accusò il comunista Diliberto, del Pdci, perché “rimase al governo mentre si bombardava il Kosovo, alla faccia del loro millantato pacifismo”).

E’ una Sinistra figlia del Sessantotto e oggi si perpetua la grande ipocrisia di quella stagione tragicomica, quando i figli di papà s’improvvisarono rivoluzionari. L’emblema più rappresentativo di questo autunno della rivoluzione è Fausto Bertinotti, cachemire e Che
Guevara, presidentete della Camera (con auto blu e addetti in livrea), ma – stando alle sue dichiarazioni – col cuore a Vicenza, fra le bandiere rosse e i centri sociali. In effetti, se desiderava tanto partecipare poteva sempre dimettersi da quella carica. Ma di separarsi dalle poltrone neanche i compagni rivoluzionari vogliono sentir parlare.
A fare malinconia sono i più giovani, ancora una volta usati come inconsapevoli truppe cammellate, indottrinati con slogan imparati acriticamente per marciare seguendo gli ordini, come sempre convinti di essere anticonformisti proprio mentre incarnano il Conformismo.

Convinti di disobbedire proprio mentre obbediscono come docili soldatini ai comandi dei generali che conservano le loro poltrone a Palazzo. Li rappresentò già Pasolini nel Sessantotto: “Oh generazione sfortunata!/ ti troverai a usare l’autorità paterna in balia del potere/ imparlabile che ti ha voluta contro il potere”.
E tuttavia pure lui, Pasolini (con più dramma e sincerità degli altri), era parte di quell’establishment intellettuale che aveva ed ha il potere, che domina sia con l’eresia che con l’ortodossia sui media, nel cinema, che monopolizza le cattedre e le istituzioni. Dove sono il governo e l’opposizione al tempo stesso.

Torna in mente una stupenda pagina dell’ “Imparfait du présent” di Alain Finkielkraut: “E’ schiumando di rabbia contro il fascismo in piena ascesa che l’arte contemporanea fa man bassa delle istituzioni culturali. Non c’è nessuna fessura nella corazza dei fortunati del mondo post-sessantottino. Hanno lo stereotipo sulfureo, il cliché ribelle, l’opinione sopra le righe e più buona coscienza ancora che i notabili del museo di Bouville descritti da Sartre ne ‘La Nausea’. Perché essi occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del Maestro, e quello, prestigioso, del Maledetto. Vivono come una sfida eroica all’ordine delle cose la
loro adesione piena di sollecitudine alla norma del giorno. Il dogma, sono loro; la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro rari avversari. In breve, coniugano senza vergogna l’euforia del potere con l’ebbrezza della sovversione.

Stronzi”.
A parte l’ultima parola, non è condivisibile?

Fonte: © libero – 18 febbraio 2007

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