A proposito della lite di oggi fra Francia e Italia, c’è un dramma nella nostra storia passata che torna alla mente.

Nel XV secolo l’Italia era uno dei paesi più ricchi d’Europa. Forse il più ricco e culturalmente egemone. Il vecchio continente ammirava la nostra fioritura dell’Umanesimo e del Rinascimento.

Dunque l’Italia era proiettata verso il primato europeo nei secoli successivi. Invece accadde qualcosa che la fece precipitare in un disastro da cui per secoli non si riprese (e forse non si è ancora ripresa).

La causa del disastro fu proprio la Francia (insieme alla cecità delle classi dirigenti degli stati italiani). Infatti, nel settembre 1494, questa Italia ricca, bellissima e culturalmente grandiosa, fu invasa da Carlo VIII con il suo esercito di 30 mila soldati.

Il re di Francia aveva ambiziosi progetti imperiali e – per cominciare – aveva messo gli occhi sul Regno di Napoli. L’esercito francese, scendendo lungo la penisola, depredò e perpetrò molte violenze.

Alla fine Carlo VIII arrivò a Napoli, ma di fatto non riuscì a prendere possesso stabilmente del regno e dovette tornare – con una certa precipitazione – in Francia.

La sua nefasta invasione però fece capire a tutti che l’Italia e le sue belle e ricche città erano tesori a disposizione di chiunque volesse appropriarsene con la forza. Non c’era un’unità d’intenti fra i regni italiani nel difendere la Penisola. E qui cominciò la nostra tragediaperché si scatenarono tutti gli appetiti europei (da questo momento l’Europa diventa una minaccia: il nostro problema nazionale).

Lo storico ed economista ginevrino Sismondo de’ Sismondi, nella sua “Storia delle repubbliche italiane”, descrive con sintetica efficacia quello che accadde:

“Alla fine del secolo XV i signori delle nazioni francese, tedesca e spagnola furono tentati dall’opulenza meravigliosa dell’Italia, dove il saccheggio di una sola città prometteva loro a volte più ricchezze di quante ne potessero strappare a milioni di sudditi. Con i più vani pretesti essi invasero l’Italia che, per quaranta anni di guerra, fu di volta in volta devastata da tutti i popoli che poterono penetrarvi. Le esazioni di questi nuovi barbari fecero infine scomparire l’opulenza che li aveva tentati.

Gli storici hanno definito questo tragico periodo “le guerre d’Italia”. E cominciò con Carlo VIII. Le potenze europee si contesero il nostro Paese che divenne campo di battaglia per tutti i loro appetiti. L’episodio più tragico fu, nel 1527, il sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi dell’imperatore Carlo V che, sostanzialmente, mise fine al Rinascimento italiano, che era detestato da Lutero almeno quanto la Roma cattolica. D’altronde, in quegli anni, la Roma cattolica rappresentò l’apoteosi del Rinascimento fiorentino. Erano una sola cosa.

Le guerre sul corpo vivo dell’Italia si conclusero sostanzialmente nel 1559, con il trattato di pace di Cateau-Cambrésis, che vide trionfare la Spagna, la quale – mettendo le mani su Napoli e Milano – aveva di fatto soggiogato gran parte della Penisola.

L’Italia ne uscì economicamente annichilita e politicamente annientata. Fu per secoli dominata dagli stranieri e, pian piano, perdette il suo primato culturale e civile.

Ma – dicevamo – questo disastro, che fu pagato salatamente dal popolo, fu anche responsabilità delle classi dirigenti italiane. Infatti la Penisola era divisa fra tanti piccoli Stati intenti a farsi la guerra fra loro, mentre gli altri popoli europei si erano già costituiti in stati nazionali.

Non solo. Fu Ludovico il Moro a suggerire a Carlo VIII di venire in Italia (anche se non si aspettava una simile invasione). E ad ogni invasione sarà evidente la tragica divisione dei regni italiani, fra i quali ci saranno alcuni che appoggeranno questo o quell’invasore straniero.

Anche il Risorgimento – che pur dovrebbe rappresentare il nostro riscatto nazionale e che arriva solo nell’Ottocento – in realtà giunse all’unificazione statuale dell’Italia grazie alle volontà e ai disegni strategici delle diverse potenze europee che, sul neonato Regno d’Italia, mantennero la loro influenza egemone.

Contro questa subalternità si scagliò un risorgimentale a 24 carati come Giosuè Carducci, che, forse con qualche eccesso, prendendo spunto dai fatti del 1866, colse una verità non momentanea: “E in quell’anno [1866] l’Italia ebbe inoculato il disonore: cioè la diffidenza e il disprezzo fremente di se stessa, il discredito e il disprezzo sogghignante delle altre nazioni. Sono acerbe parole quelle che io scrivo, lo so. Ma anche so” aggiungeva il poeta “che per un popolo che ha nome dall’Italia non è vita l’esser materialmente raccolto e su’ l rifarsi economicamente, e non avere né un’idea, né un valore politico, non rappresentare nulla, non contar nulla, essere in Europa quello che è il matto nel giuoco de’ tarocchi: peggio, essere un mendicante, non più fantastico né pittoresco, che di quando in quando sporge una nota diplomatica ai passanti sul mercato politico, e quelli ridono: essere un cameriere che chiede la mancia a quelli che si levano satolli dal famoso banchetto delle nazioni, e quasi sempre, con la scusa del mal garbo, la mancia gli è scontata in ischiaffi. Quando sarà promosso a sensale o mezzano?”

Concludeva amaramente sulla “gloria delle storiche città” che “sospirano al titolo e alla fama di locande e di postriboli dell’Europa” mentre “la plebe contadina e cafona muore di fame, o imbestia di pellagra o di superstizione, o emigra”.

Questa è la storia passata, ma contiene molti insegnamenti per il presente.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 13 novembre 2022

 

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