I titoli dei giornali sono a volte iperbolici. Vengono pensati per attirare l’attenzione dei lettori. Perciò, se capita di leggerne uno che recita “San Berlinguer, aiutaci tu!”, si immagina che sia solo una frase ad effetto. Ma l’articolo che seguiva questo titolo, apparso sul Venerdì di Repubblica, corrispondeva a quanto annunciato. Ed era un articolo serio.

Ecco l’inizio:

“In tempi difficili si ha bisogno di santi. Se la parola non piace, quando tutto sembra andare in rovina si avverte la necessità di esempi. I santi indicano una speciale vicinanza a Dio, gli eroi spostano l’attenzione sull’uomo. In entrambi i casi il ricordo e la riproposizione di un volto, di una voce, di una vita, di uno stile hanno il potere di suscitare sentimenti, speranze, pensieri e devozione – e anche su questo le differenze fra virtù e santità risultano impercettibili.

Così comincia la descrizione della mostra “I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer” – dal 15 dicembre all’ex Macro di Testaccio (Roma) – allestita dall’Associazione Enrico Berlinguer guidata dal sen. Ugo Sposetti.

L’articolo del Venerdì prosegue con gli stessi toni agiografici. Spiega che da queste “radici” – ovvero Berlinguer – “scaturisce qualcosa, un soffio, una corrente, che tocca i cuori e ha a che fare con il sacro”. I capannoni che ospitano la mostra “assomigliano a una basilica”, “la vasta iconografia spinge verso una immersione sensoriale ai limiti del religioso” e il visitatore compie “un pellegrinaggio”. Tanto che per gli occhiali di Berlinguer fa capolino la parola “reliquia”.

Ho letto e riletto l’articolo, con incredulità. Naturalmente non c’è nulla da eccepire su una mostra dedicata a Berlinguer. La merita e condivido anche la stima per la persona. Mi sembra però impossibile parlare della sua figura politica “svincolata” dal Pci e dall’“ideale del comunismo” e francamente stupisce una così ostentata sacralizzazione.

Che ciò avvenga sul magazine di Repubblica, il giornale che fin dalla nascita ha rivendicato la sua identità laicista, fa sorridere (forse oggi bisogna essere cattolici per guardare alla politica con una certa laicità?).

È significativo pure che la santificazione di Berlinguer avvenga nell’epoca in cui questo giornale è di proprietà degli eredi di Agnelli. Il quale è stato a lungo il simbolo del capitalismo (dei “padroni”), ma è stato soprattutto il simbolo di quei grandi borghesi che all’anticomunismo hanno preferito il “dialogo” con le leadership della sinistra (a differenza della borghesia di altri paesi europei).

L’articolo in questione è firmato da Filippo Ceccarelli, che è uno dei migliori giornalisti italiani. Ha un archivio leggendario, una scrittura brillante e colta, di solito ironica e distaccata, e viene da Panorama di Lamberti Sechi e dalla Stampa, non dall’Unità. Non ha dunque la nostalgia di una militanza politica nel Pci. Perciò la sua agiografia fa riflettere su questa stagione del giornalismo italico.

Ceccarelli sa bene che Berlinguer (il quale, come politico e anche come segretario del Pci, ne ha sbagliate tantissime: basti dare un’occhiata al libro di Ugo Finetti, “Botteghe Oscure”), è stato comunista per tutta la vita. È stato il capo carismatico del più grande Partito Comunista d’occidente. Non ha fatto l’eremita, o il missionario con Madre Teresa nei bassifondi di Calcutta, né in qualche lebbrosario africano o con i “Piccoli fratelli” di Charles de Foucauld.

Entrò nel Pci al tempo di Stalin e di Togliatti, del quale fu il pupillo e alla cui ombra fece la sua carriera politica ricostruita benissimo da Chiara Valentini nel suo libro “Berlinguer”. Nella cui prefazione Paolo Spriano, lo storico del Pci, riconosce che egli emerge come “un ‘quadro’ tipico del partito togliattiano, compreso un certo grigiore conformistico”. Se qualcuno conosce una frase critica di Berlinguer sul Pci togliattiano me la segnali. Io non ne ricordo.

Così come i suoi eredi politici, oggi nel Pd, non hanno mai preso le distanze con un taglio netto da lui e dal suo Pci. Anzi. Si è cercato di fare di Berlinguer un’icona che non ha nulla a che fare con il comunismo (cosa che non gli rende neanche giustizia) in modo che – mitizzando lui – anche il Pci finisse per brillare di luce riflessa, passando nella narrazione ufficiale come un partito grandemente benemerito per il nostro Paese, anzi addirittura salvifico.

Del resto non ricordo nessun erede del Pci oggi nel Pd che abbia formulato una condanna radicale e motivata di ciò che è stato il comunismo nel Novecento, di cui il Pci ha rappresentato un’espressione importante.

Anzi, il segretario Occhetto, nel marzo 1989 – all’ultimo Congresso del Pci prima del crollo del Muro di Berlino – replicò duramente a Craxi (che gli chiedeva di rinunciare al nome “comunista”), tuonando fra applausi scroscianti: “Non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato.

Da questa storia “gloriosa” viene il Pd. Ma ora anche santa?

 

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 4 dicembre 2023