Sono in corso grandi manovre attorno alla (possibile) crisi di governo. Ieri Paolo Mieli, sul “Corriere della sera”, ha cercato di convincere il Pd che gli converrebbe scegliere le elezioni, perché questa coalizione di governo è tenuta insieme solo dal deprimente desiderio dei suoi parlamentari “di tenersi stretto il proprio seggio”, quindi non ha respiro e visione.

Mieli ha ricordato che tutto questo è stato bocciato da due grandi vecchi della Sinistra come Macaluso e Formica che ritiene addirittura “un obbligo” andare al voto, lasciando che sia un nuovo e legittimato parlamento (dopo il taglio dei seggi) a scegliere il prossimo Capo dello Stato, i membri del Csm e i giudici costituzionali.

Mieli sottolinea che è assurdo affrontare l’attuale emergenza sanitaria ed economica con un esecutivo in stato comatoso (anche se rimpastato) e ricorda al Pd che, con l’implosione del M5S, in fondo la partita sarebbe di nuovo fra centrosinistra e centrodestra, quindi l’esito sarebbe aperto. Un invito a giocarsi la partita.

Il ragionamento di Mieli potrebbe trovare ascolto se il Pd fosse un partito con idee forti e un rapporto profondo con l’Italia, se fosse un partito interessato alle sorti del Paese e convinto di poter competere in nuove elezioni con un progetto di Italia del futuro.

Ma non è così e il motivo è semplice (sembra sfuggire a molti analisti): il Pd è ormai il guscio senz’anima del vecchio Pci. Di quel passato ha perso sia l’ideologia che il popolo. E’ rimasta solo la Nomenklatura e la Nomenklatura ha un solo scopo: perpetuare se stessa.

Nel 2018 il Pd è stato precipitato, dagli elettori, al minimo storico, ma con spregiudicatezza ha capovolto le sue posizioni e, pur di andare al potere, si è alleato con quei grillini che fino a un minuto prima aveva combattuto e demonizzato duramente.

Sono più di 25 anni che si assiste a un colossale fenomeno di trasformismo della Nomenklatura rossa, cioè da quando cambiarono in fretta e furia il nome del Pci (senza mai fare i conti veramente con la questione comunista) perché stava crollando l’Est sovietizzato.

Dopo la sconfitta del 1994 capirono che non bastava un cambio di nome. La Nomenklatura del Pci era rimasta tutta ai propri posti, ma con quel passato (mai veramente rinnegato) non avrebbe mai avuto i voti degli italiani e l’accettazione occidentale.

Così ricorse a Romano Prodi che pensò di usare come volto pubblico (se non come foglia di fico): volevano arrivare al governo per interposto democristiano. Prodi era il lasciapassare che serviva: ex diccì, ex Iri con ottimi rapporti con i poteri forti (economici e internazionali), col Vaticano, atlantico ed europeista.

L’ex Pci abbracciò tutto quello che prima aveva combattuto: il primato del mercato, l’euro, la Nato, la Ue, le privatizzazioni, la demolizione dello stato sociale e perfino la guerra “amerikana” (con la ex Jugoslavia).

Così quella Nomenklatura del Pci riuscì ad arrivare al potere, accantonando in malo modo Prodi quando non serviva più. Essendosi annessi la sinistra diccì, in funzione ancillare, si arrivò al Pd che pretese di scimmiottare il Partito democratico americano: dall’ancoraggio a Mosca si passò all’ancoraggio a Washington e tutto senza mai rinnegare nessuna pagina del passato. Poi, in epoca più recente, l’ancoraggio alla Merkel e la sudditanza a Berlino (passando per Bruxelles): una legittimazione straniera continuamente cercata per sostituire la (mancante) legittimazione elettorale da parte degli italiani.

In Italia il Pd ha fatto maggioranza e governi anche con Forza Italia(governo Monti e governo Letta) e poi con il M5S, accettando di votare premier lo stesso Conte che fino al giorno prima era Capo del governo Lega-M5S.

Non s’intravede la coerenza di un’idea, di una visione del Paese, né una revisione critica della propria storia, ma sempre il vecchio arrogante senso di superiorità antropologica. La costante è stata: il potere per il potere.

Matteo Renzi fin dall’inizio fu percepito come un corpo estraneo dalla Nomenklatura. Il conflitto fra lui e “la Ditta” (nome bersaniano della Nomenklatura del Pci riciclatasi come Pd) si ripropone di nuovo in questi giorni e non è dato sapere come si concluderà la (possibile) crisi.

Ma è una lotta per l’egemonia che nasce da lontano. Renzi è sempre stato detestato dalla Nomenklatura anzitutto per motivi caratteriali e generazionali: Matteo non ha mai accettato il ruolo ancillare e subalternodella sinistra diccì entrata nel Pd. In particolare non ha mai aderito al cemento ideologico che, dal 1995 al 2013, ha tenuto insieme i post-diccì e i post-comunisti: l’antiberlusconismo.

Giocando la carta del ricambio generazionale ha promesso di rottamare le vecchie Nomenklature e anche le vecchie culture confluite nel Pd: le sue idee sono sempre state molto più vicine a quelle di Berlusconi che al confuso minestrone della Nomenklatura.

Poi è stato fondamentale per Renzi il rapporto diretto – oltreché con la Merkel – con Barack Obama e con l’establishment Dem americano. Per questo – soprattutto adesso che inizia la presidenza Biden – il politico fiorentino lancia la seconda fase della sua vicenda politica.

Anzitutto rottamare il governo Conte bis, anche per spazzar via “l’anomalia Conte” e quindi il M5S: gli è facile – se lo vuole – abbattere questo governo spiegando che è del tutto incapace di affrontare come si deve l’emergenza che il Paese sta vivendo.

In secondo luogo sa di dover evitare proprio lo scenario che Mieli prospettava, ovvero – con l’implosione del M5S – il ritorno al confronto fra centrodestra e centrosinistra.

E’ chiaro che per Renzi puntare a un governo Draghi (o chi per lui) significa disarticolare gli attuali poli e tentare di raccogliere attorno a sé un’area moderata che poi potrebbe essere il pilastro del sistema e in prospettiva il “partito della nazione”.

Non sarà facile raggiungere questo obiettivo, ma questa strategia sembra l’unica che possa garantirgli una centralità e un futuro. Il primo ostacolo da abbattere ora è la premiership di Conte. Poi comincerà un’altra partita.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 10 gennaio 2021

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