È un progresso? O piuttosto un regresso? Una trentina di anni fa i lupi sono usciti dal mondo delle fiabe, dalla letteratura, dai libri di storia e – non è chiaro il perché – hanno cominciato a riprodursi nei nostri boschi. Sempre di più e con danni sempre maggiori agli allevamenti.

Il Financial Times scrive che l’Italia ne ha più di tremila esemplari ed è in cima alla classifica europea. La Commissione europea ha calcolato che i lupi ogni anno uccidono, nei Paesi Ue, più di 65.500 capi di bestiame.

Così Ursula von der Leyen ha lanciato l’allarme: sono diventati troppi e fanno troppi danni. Subito gli ecologisti l’hanno accusata di cercare il consenso di allevatori e agricoltori (è una brutta cosa?). E qualcuno ha ricordato che l’anno scorso, in Bassa Sassonia, un lupo ha ucciso il suo pony, come se dunque Von der Leyen parlasse per rancore personale.

Per certi ecologisti la vita del lupo è sacra. Ma quella di cavalli o pecore uccise dai lupi? Il fatto che siano animali allevati dall’uomo li rende sacrificabili perché la proprietà privata è una cosa brutta? In realtà i lupi non distinguono e sbranano anche gli animali selvatici come i caprioli. Se proprio non si vogliono difendere le proprietà umane, almeno le altre bestie…

Al di là delle organizzazioni ecologiste, c’è una forte dose di ideologia ambientalista anche nella mente di tanti burocrati e politici che magari vivono comodamente nelle Ztl signorili delle grandi città europee, dove non si allevano pecore, pollame, maiali o bovini e cavalli e non si va a lavorare per boschi, pascoli e campi.

Forse questi “romantici” ritengono giusto che nelle nostre campagne e nei nostri boschi si riproducano senza limiti lupi, orsi, cinghiali e altri animali dannosi o, in certi casi, pericolosi. Ma la maggioranza della gente? Il pronunciamento di Von der Leyen finalmente è una novità. Gradita a contadini e allevatori che poi sono i veri ecologisti.

Il ritorno del lupo peraltro suggerisce anche letture simboliche. “Verso la fine del secolo sesto dopo la nascita di Cristo molti uomini di cultura videro eclissarsi in Occidente la civiltà antica sotto i colpi della guerra, della peste, della carestia; assistettero ai sussulti estremi di un’epoca senza intravedere possibilità di sopravvivenza, senza sperare in un’altra civiltà; sembrava la fine di tutte le cose, che essi erano portati a identificare con la fine dell’Impero Romano, delle sue città, delle sue tradizioni, dei suoi ideali”.

Dopo questo esordio lo storico Vito Fumagalli – nel libro “L’alba del Medioevo” (Il Mulino) – aggiungeva: “Città antiche decadute, scomparse, spezzate dalle incursioni dei barbari, abbandonate dagli abitanti, rifugio – non di rado – di animali selvatici; campagne disseminate delle rovine di chiese, villaggi, ponti, strade”.

Gli umani erano ridotti al minimo. Tutto era ricoperto di fitta boscaglia e pieno di lupi. Dominava la natura. Non credo che si possa essere così ecologisti da considerarla una situazione paradisiaca: per la gente di quel tempo era una vita infernale.

Oggi si potrebbe leggere questa descrizione di rovine materiali come se raccontassero il paesaggio attuale che in Occidente abbonda di rovine umane, spirituali, morali e ultimamente ha cominciato a ripresentare anche rovine materiali, come quelle che, nel Novecento, abbiamo visto, in enormi proporzioni, durante i due conflitti mondiali e i grandi totalitarismi. La storia non si ripete, ma il lupo ci ricorda che la regressione è sempre possibile.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 30 dicembre 2023

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