Dopo la drammatica morte del giovane Nahel, nella banlieu parigina, durante un controllo stradale, la Francia delle periferie è esplosa.

I giornali italiani e la sinistra sembrano in imbarazzo, forse perché a Parigi non governa “la Destra” e non capiscono più dove sono i buoni e i cattivi. Tutto è confuso. Il loro solito schema ideologico non funziona.

Consideriamo il dramma da cui tutto è nato: la morte di Nahel. Ieri Manuel Valls, primo ministro e ministro dell’Interno durante la presidenza del socialista Hollande, a proposito della legge sull’uso delle armi da parte della polizia, ha dichiarato al “Corriere della sera”: “l’abbiamo preparata e votata noi della sinistra di governo rispondendo alle richieste dei poliziotti spesso minacciati da auto che non si fermano all’alt”.

Poi ha aggiunto: “L’agente [che ha sparato, nda] è stato subito incriminato e incarcerato, è stato anche un modo per proteggerlo e per far passare un messaggio. La morte di un ragazzo di 17 anni è un dramma, una cosa terribile (…). Ma diciamo le cose chiaramente, quel ragazzo minorenne non avrebbe dovuto trovarsi alla guida dell’auto, e non era la prima volta che guidava senza patente. Ora bisogna lasciar lavorare la giustizia, perché gli agenti usano la violenza legittima dello Stato, hanno per questo una grande responsabilità e si trovano ad esercitarla in condizioni molto difficili”.

Però da giorni – dopo la morte del giovane – in Francia si susseguono manifestazioni violente, disordini, con devastazioni e feriti, a cui lo Stato risponde con durezza: repressione delle violenze e arresti.

Tutto accade nella Francia di Macron, quella i cui ministri “progressisti”, all’indomani delle elezioni italiane del settembre scorso, ci impartivano lezioni sui diritti umani e le giuste politiche migratorie: “Rispetteremo la scelta degli italiani”, ma

“saremo molto attenti al rispetto dei valori e delle regole dello Stato di diritto”, diceva Laurence Boone, ministra per gli Affari europei, il 7 ottobre 2022.

Il 4 maggio scorso il ministro dell’Interno francese, Darmanin accusava Meloni dicendo: “è incapace di risolvere i problemi migratori”.

Il capo del partito di Macron, Stéphane Séjourné, il 10 maggio, tuonava: Meloni fa tanta demagogia sull’immigrazione clandestina: la sua politica è ingiusta, disumana e inefficace”.

Oggi è evidente che la Francia non ha lezioni da dare all’Italia. Oltretutto dovrebbero fare “mea culpa” i vari governi francesi (e quelli europei) degli ultimi decenni.

Domenico Quirico, che è spesso una voce controcorrente, ieri, sulla “Stampa” ricordava che già “nel 2005 le banlieu esplodevano contro una polizia considerata nemica, una Francia che non volevano più. Tre presidenti-monarchi si sono girati dall’altra parte, ora si trovano di fronte ragazzi ancora più rabbiosi”.

Ma se si va a scavare sulle cause ancora una volta la narrazione progressista va in tilt. Infatti c’è chi dice che è solo una questione sociale di povertà e chi sostiene che invece il problema è la mancata integrazione di immigrati di seconda e terza generazione e l’Islam.

Ma nel primo caso bisognerebbe mettere sotto accusa le politiche economiche dei governi francesi e dell’Unione europea che producono povertà. E, notoriamente, non si può criticare la UE.

Nel secondo caso – l’integrazione – bisognerebbe di nuovo prendere atto del fallimento del modello europeo, e francese in particolare, basato sull’emigrazione considerata come un fenomeno benefico e salutare, nell’illusione che non ci siano problemi di integrazione.

La Francia ha scelto ideologicamente in nome della “laicité” di esigere da chi arriva la cancellazione delle sue tradizioni culturali, peraltro dopo aver cancellato le proprie e aver premuto perché l’Europa rinnegasse le radici culturali e spirituali del continente. Così non si capisce più in quale civiltà gli immigrati dovrebbero integrarsi.

I progressisti della globalizzazione ritengono che si debbano dissolvere le identità, che gli uomini e i popoli siano anonimi e apolidi come le merci e come il denaro. E che si possano spostare da una terra all’altra senza problemi. Ma non è così.

“Gli individui non sono intercambiabili. Un popolo ha anche un patrimonio culturale, se non si vuole ammettere questo si creano condizioni di violenza”, diceva Alain Finkielkraut, a Die Welt, nel maggio scorso.

Oggi forse si comincia ad aprire gli occhi. Valls, per esempio, sostiene che nella crisi di autorità dello Stato, della scuola, della famiglia, della Chiesa, dei sindacati, del Partito comunista, “l’Islam ha preso un ruolo importante, forse eccessivo”.

Ma chi ha prodotto questo deserto nichilista? Forse si comincia a capire che l’Italia ha buone ragioni quando si oppone all’immigrazione incontrollata; quando propone un “piano Mattei” per l’Africa; quando sostiene l’idea – affermata dai Papi – che “il primo diritto è quello di non emigrare”; quando sottolinea che lo Stato non può essere alla mercé dei trafficanti e quando afferma che occorre ritrovare la nostra identità culturale. Anche per poter integrare davvero chi arriva.

Il modello europeo sta crollando e l’Italia ha qualcosa da insegnare.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 4 luglio 2023

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