Fra gli squali della speculazione e il dragone rosso
Contrordine compagni, la storia si è voltata indietro: una inversione a u. Dal 1989-1991 si racconta questa favola: il comunismo è sparito dal mondo e trionfa la liberaldemocrazia in tutto il globo. Fine della storia, decretò un politologo americano facilone.
Ebbene, venti anni dopo ci si sveglia bruscamente dal sonno: nella realtà la storia si è rimessa in moto e corre all’indietro.
I sistemi liberaldemocratici sono alla frutta (in certi casi alla grappa) e trionfa invece la superpotenza cinese: un regime comunista che si appresta a diventare la prima potenza economica mondiale.
Un Paese che col suo miliardo e 300 milioni di abitanti ha il 20 per cento della popolazione mondiale (un essere umano su cinque è cinese).
Una superpotenza che già oggi detiene un pacchetto enorme del debito europeo e americano ed è in condizioni di prendere per le orecchie l’inquilino della Casa Bianca prescrivendogli – come ha fatto nei giorni scorsi – le misure economiche da assumere e intimandogli pure di fare in fretta.
Un mese fa Obama, che si era preso la libertà di ricevere il Dalai Lama, è stato persino costretto ad accoglierlo in una sala secondaria e – se ho letto bene – a farlo poi sgattaiolare da un’uscita secondaria della Casa Bianca per non dispiacere ai “padroni” cinesi che non avevano gradito quell’incontro.
Così come la Cina ha fatto sentire il suo ruggito alle paurose democrazie perfino nell’assegnazione del premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, tanto da indurre una ventina di “coraggiosi” Paesi a disertare la cerimonia per non dispiacere a Pechino.
Tramonto dell’Occidente e ascesa del Dragone rosso d’oriente. Questo è il titolo del film che sta scorrendo davanti ai nostri occhi.
Il peso politico di condizionamento del regime cinese che si dispiegherà da ora in poi (come già sta accadendo in Asia) è facile a immaginarsi.
Comincia un’era durissima per le democrazie. Anche perché sono minacciate in casa da un altro nemico, che poi ha favorito e alimentato la crescita del dragone: un potere finanziario selvaggio, anonimo e privo di vere regole e vincoli, favorito da dispositivi finanziari e tecnologie informatiche devastanti, che è capace di puntare a colossali guadagni speculativi mettendo in ginocchio interi stati.
Un potere al quale nemmeno la superpotenza americana sa far fronte. Anche perché le classi dirigenti occidentali appaiono prone o impotenti davanti a tali poteri.
La corsa ai guadagni speculativi illimitati – che arriva a scommettere sul fallimento di interi stati – ha messo in ginocchio le economie occidentali, anche grazie al cattivo governo o a errori di lunga durata delle classi politiche, ma soprattutto ha demolito l’autonomia e la sovranità degli stati e il primato stesso del sistema democratico.
Siamo dunque stritolati da una tenaglia costituita da un lato dai poteri forti della finanza internazionale e della tecnocrazia anonima e dall’altra da un colosso economico e demografico cinese che ha fatto propria la cultura del profitto illimitato pur mantenendo la ferrea dittatura politica del partito comunista (del resto il primato assoluto del fattore economico era già alla base della filosofia marxista).
Entrambe queste potenze manifestano un certo disprezzo per la sovranità popolare e per le procedure delle democrazie: lo si è visto con clamorosa evidenza nei giorni scorsi quando, sia le divinità dei “mercati” che il Dragone rosso, hanno espresso irritazione per le “lentezze” delle decisioni dei politici.
E disappunto per l’incapacità delle democrazie di agire tempestivamente nel dissanguamento dei cittadini contribuenti.
La democrazia insomma è diventato un inutile intralcio agli interessi di lorsignori, l’ “internazionale del denaro” e la nuova internazionale rossa con gli occhi a mandorla.
Possiamo dormire sonni tranquilli? A me pare proprio di no.
Del resto – come dicevo – il Dragone rosso è stato alimentato e cresciuto proprio dagli smisurati appetiti del “mercatismo” che ha nutrito e ha fatto ingigantire il colosso cinese con una serie incredibile di “regali” politici e commerciali, infischiandosene totalmente del problema dei diritti umani e sociali e travolgendo ciò che una volta era, per ogni Paese, l’ “interesse nazionale”.
L’ingresso di botto (senza tappe e tempi intermedi) della Cina nel WTO, nell’organizzazione del commercio mondiale, l’11 dicembre 2001, è la data simbolo di questa politica.
Che si è replicata mille altre volte (basti ricordare l’accettazione della sottovalutazione della moneta cinese o le clausole protettive della Cina nei trattati internazionali, come quello di Kyoto).
La politica cinica e miope dei governi occidentali che, credendosi furbi, hanno chiamato “realpolitik” il cinismo (“pecunia non olet”), in realtà ha scavato la fossa ai propri paesi.
Quante volte i Clinton e i Prodi hanno spiegato che la Cina “non è un pericolo, ma un’opportunità”. E quanti capitalisti si eccitavano alla vista di una immensa massa di manodopera a basso costo e senza protezioni sociali e senza problemi di politica ambientale (col miraggio di un mercato di un miliardo e mezzo di persone).
Così al regime cinese – senza costose clausole relative ai diritti sociali e umani – è stato permesso di fare una colossale concorrenza sleale alle economie del mondo democratico.
La supercrescita dell’economia cinese oltretutto è una delle cause del grande aumento dei prezzi delle materie prime che è fra le concause della crisi mondiale.
I dragoni hanno messo in ginocchio l’industria dell’Occidente, appropriandosi enormi quote di mercato e addirittura comprando i titoli del debito Usa perché i dissennati americani consumassero cinese.
Oggi non è l’Occidente che, a rimorchio degli affari, ha contagiato la Cina con la democrazia e i diritti sociali – come teorizzavano i progressisti dell’era Clinton e Prodi – ma al contrario è la Cina che porta l’occidente verso una restrizione della democrazia e delle garanzie sociali.
Lenin previde che i capitalisti avrebbero fornito all’Urss la corda con cui impiccarli. In effetti così hanno fatto con la Cina. Ma gli impiccati siamo noi.
Oggi vediamo se e quanto avevamo ragione a ostinarci a parlare di comunismo e diritti umani prendendoci per venti anni gli insulti di quei “progressisti” che – trattandoci da dementi – sdottoreggiavano che il comunismo è finito, che attardarsi a parlarne era da fissati, da paranoici, da gentaglia con secondi fini.
E’ questa cultura “progressista” che ha permesso ai politici occidentali di non fare i conti con la questione della democrazia e dei diritti umani e sociali in Cina.
Ora siamo serviti. Una dittatura comunista che per ferocia non è seconda a nessun totalitarismo del XX secolo espande la sua egemonia sul mondo e prende per le orecchie perfino il presidente americano.
E’ bene sapere infatti che il regime comunista cinese è di gran lunga il più sanguinario della storia. Basta mettere in fila gli orrori dei suoi sessant’anni di storia. Le vittime si contano – letteralmente – a centinaia di milioni.
Da quelle fatte per la presa del potere (e la repressione) da parte di Mao, nel 1949, a quelle dell’invasione del Tibet (qualcosa assai simile al genocidio), dal mare di vittime del folle “Grande balzo in avanti”, fino allo scatenamento da parte di Mao della farneticante “rivoluzione culturale”, che fu un immane bagno di sangue, fino dall’imposizione della legge sul figlio unico, con l’aborto obbligatorio di massa, dagli anni Ottanta, arrivando al massacro di Piazza Tien-an-men e alle moderne repressioni col sistema dei Laogai o con le condanne a morte di massa.
Per non dire di una politica estera che ha appoggiato i regimi più sanguinari, da quello cambogiano di Pol Pot e coreano di Kim Il-Sung, fino all’appoggio, dato in questi anni, al feroce regime sudanese che ha permesso a Pechino di accedere al petrolio africano.
Ora davvero la Cina è vicina. Auguri.
Antonio Socci
Da “Libero”, 14 agosto 2011