Merita un applauso l’Einaudi che pubblica gli Inni cristiani d’Occidente. È vero che il costo del volume, curato da Federico Giuntoli, è proibitivo (€90,00), ma è un libro di un migliaio di pagine che propone un’ampiaantologia di inni cristiani, a partire dai primi secoli, tradotti dal latino e con il dovuto apparato filologico.

Sono i testi entrati nella liturgia delle Ore, con i quali la Chiesa Cattolica prega quotidianamente, dunque rappresentano il “respiro” e il grido della comunità cristiana da secoli.

DA S. AMBROGIO…

Giustamente Claudio Magris, dedicando un lungo articolo a questo libro (titolo: “Negli Inni la musica della vita”), sul Corriere della sera (2/2), sottolinea che “gli Inni sono un grande libro di poesia”.

Del resto all’origine di questa forma di preghiera cristiana, nella Chiesa d’occidente, troviamo un grande come S. Ambrogio.

Lo spessore letterario di molti testi è davvero significativo, anche se la traduzione non sempre ne restituisce l’intensità: “Verbum supérnum prodiens,/ a Patre lumen éxiens,/ qui natus orbi subvenis/ cursu declivi témporis” (O Parola che vieni dall’alto,/luce che promani dal Padre,/che con la tua nascita soccorri il mondo/nello scorrere rovinoso del tempo).

C’è poi da chiedersi se considerarli solo dal punto di vista letterario non sia tremendamente riduttivo. È possibile, per esempio, apprezzare veramente gli inni del primo millennio senza il gregoriano e fuori da  un certo contesto, anche architettonico?

Massimo Mila nel suo Breve storia della musica sostiene che la “nobiltà sublime” del gregoriano sta “al di sopra d’ogni espressione musicale profana del tempo”. Poi cita Huysmans per il quale esso è “la parafrasi mobile e aerea dell’immobile struttura delle cattedrali; l’interpretazione immateriale e fluida delle tele dei primitivi; la traduzione alata ed anche la stretta e flessibile stola di quelle prose latine edificate un tempo dai monaci dei chiostri”.

Secondo Mila, “nella sua voluta povertà di mezzi artistici – il minimo di musica dopo la parola nuda – il gregoriano afferma una sua incrollabile unità, che non è l’unità di conquista della musica romantica: è un’unità eternamente posseduta, senza alcuno sforzo. Non il divenire, ma l’essere, sempre totale e sempre uno. È – scrive efficacemente il Bellaigue – l’unità dell’uomo con se stesso, unità spirituale e interiore; l’unità che l’uomo godeva prima della colpa originale”.

…A SANREMO

C’è poi la successiva evoluzione della musica, dopo Guido d’Arezzo, con l’Ars nova trecentesca, e qui si aprono altri interrogativi sul rapporto fra inni e musica. E più in generale fra letteratura e musica.

“La recente scoperta dei laudari di Cortona e magliabechiano” spiega Mila “ha solo parzialmente colmato il vuoto delle nostre nozioni sulla musica medievale in Italia. In che rapporti stesse con l’arte dei suoni la mirabile fioritura poetica che culmina in Dante, non sappiamo. Qualche studioso, come il Wolf, ha supposto che tanto nelle poesie della scuola siciliana, cosí ricca d’analogie con quella provenzale, quanto in quelle dei primi toscani (…) come nell’opera del ‘dolce stil novo’ e nella stessa lirica di Dante, ‘parole e suono strettamente si collegassero’”.

Lo fa pensare proprio Dante che, nel Purgatorio, incontra il musico Casellae ricorda il suo “amoroso canto/ che mi solea quetar tutte mie voglie” e poi gli fa addirittura intonare una canzone del Convivio, Amor che ne la mente mi ragiona (non è un rap per Sanremo, ma magari qualcuno può adottare S’i’ fosse foco).

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 3 febbraio 2024

 

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