Il mirabile gruppo scultoreo del Laocoonte, attribuito a tre artisti greci (I secolo aC-I secolo dC), capolavoro che fu ritrovato in una vigna a Roma nel 1506 e la cui scoperta cambiò la storia dell’arte, è in realtà opera di Michelangelo?

Il libro di Francesco Colafemmina, “Enigma Laocoonte (Michelangelo, Giulio II e la storia di una contraffazione)”, pubblicato da Mimesis, induce a pensarlo con argomenti molto convincenti.

Già nel 1961 Leopold Ettlinger aveva pubblicato una sua analisi stilistica concludendo che la drammatica espressione di dolore del Laocoonte non rimandava all’arte greca classica, ma proprio al Cinquecento e quindi il capolavoro poteva essere stato concepito in quell’epoca.

Passano alcuni anni e il 20 aprile del 2005 sul New York Times esce un articolo con questo titolo: “Is ‘Laocoon’ a Michelangelo forgery?”. Il 6 aprile del 2004, Lynn Catterson, una storica dell’arte della Columbia University, in una conferenza pubblica a New York, sponsorizzata fra l’altro dall’Italian Academy for Advanced Studies in America e il Center for the Ancient Mediterranean della sua università, aveva ipotizzato che Michelangelo avesse realizzato questo spettacolare “falso antico”.

Pure la Catterson proponeva analisi stilistiche e fra l’altro rimandava a un disegno di Michelangelo, precedente il 1506 (e il ritrovamento), in cui era rappresentato proprio il torso del Laocoonte visto da dietro.

La possibile nuova (e clamorosa) attribuzione fece notizia sui giornali, ma fu sepolta nel silenzio dal mondo accademico. Lo scrive la stessa studiosa nella sua prefazione al libro di Colafemmina dove lamenta che la sua tesi non è mai stata contestata con “un libro sottoposto a peer review o un articolo su una rivista”. Ma è stata ignorata.

La Catterson invece si compiace del lavoro di Colafemmina che definisce “ammirevole per la quantità e la tipologia di fonti che ha esaminato”. In effetti nel volume c’è un’avvincente ricostruzione degli eventi.

Michelangelo è fra i primi ad accorrere, quel 14 gennaio del 1506, nella vigna vicina a Santa Maria Maggiore in cui viene ritrovato il gruppo scultoreo sepolto. E – osserva l’autore – Michelangelo è “un uomo non nuovo a sotterramenti di opere spacciate per antiche. Non era stato proprio lui, Michelangelo, a cedere nel 1496 ad un mercante d’arte un Cupido dormiente contraffatto come opera del passato, sepolto e ritrovato in una vigna, secondo il Vasari, e venduto per una somma esagerata al cardinal Riario, nipote del Papa?”.

Proprio per quell’episodio fu scoperto il talento del giovane scultore fiorentino nella Roma papale dove andrà a scolpire la stupenda Pietà (oggi in San Pietro). È noto che poi, nel corso degli anni, il Buonarroti si fece pagare molto bene dal Papa per i suoi capolavori (è il primo artista moderno, retribuito come una star).

Colafemmina ripercorre le alterne vicende del rapporto fra lo scultore e Giulio II, appassionato e collezionista di arte antica. Ricostruisce anche le strane circostanze del ritrovamento del gruppo scultoreo.

Di una rappresentazione in marmo del Laocoonte aveva scritto Plinio il Vecchio attribuendone la paternità a tre scultori greci, Agesandro, Atenodoro e Polidoro. Aggiungeva che l’opera si trovava nella casa di Tito.

Tuttavia, mi spiega Colafemmina, ci sono molte anomalie, perché “Plinio è un ammiraglio di marina e non capisce di arte. Se si trattava di un capolavoro perché nessuno, né Strabone, né Pausania, ne fanno parola? Inoltre è ben difficile che la statua di cui parla Plinio sia il Laocoonte che conosciamo perché le altre statue conosciute dei tre scultori di Rodi – che sono conservate a Sperlonga, presso la villa di Tiberio – non raggiungono la qualità del Laocoonte. Non sembrano uscite dalle stesse mani. Infine la casa di Tito non si trovava dove era sepolto il Laocoonte”.

Negli anni Ottanta si fecero analisi scientifiche sul gruppo scultoreo oggi conservato nei Musei vaticani e si scoprì che era composto da marmo pario e marmo di Carrara. Che portano lontano dal I secolo.

Il libro di Colafemmina si legge anche come un avvincente giallo che, scava nelle stranezze del ritrovamento e dei pagamenti del Papa per farsi vendere il capolavoro, e poi culmina nella precipitosa fuga da Roma di Michelangelo, inseguito da alcuni cavalieri: lui scriverà a Giuliano da Sangallo che non può dirgli il motivo e che teme per la sua vita. Cosa era successo?

In un’altra circostanza, temendo il ritorno dei Medici a Firenze, si nasconde nella sagrestia nuova di San Lorenzo e passa il suo tempo disegnando: “tutti i disegni rappresentano opere già esistenti o bozzetti di idee che successivamente Michelangelo svilupperà” e “in questo contesto è proprio la testa di Laocoonte a costituire un unicum e un’anomalia”.

Perché sarebbe l’unico disegno che rappresenta un’opera non sua, per di più da un angolo visuale (molto in alto sulla testa del Laocoonte) che poteva appartenere solo a colui che lo aveva scolpito (la stessa nudità del sacerdote troiano è tipicamente michelangiolesca).

Lasciando gli sviluppi del giallo – compreso il famoso braccio mancante(ritrovato nel Novecento) – alla lettura del libro, è molto interessante l’osservazione del saggista secondo cui Michelangelo, in quel momento di paura, si riconosceva nel volto angosciato di Laocoonte.

L’interpretazione che Colafemmina dà del sacerdote troiano che, secondo il racconto di Virgilio, viene stritolato dai serpenti, insieme ai figli, quando mette in guardia i suoi concittadini dal cavallo ligneo lasciato dai greci, è affascinante perché è attuale anche oggi il tema del “crollo di civiltà” e della sorte di chi dice la verità contro tutto e tutti: “ridotto al silenzio” scrive Colafemmina “Laocoonte è l’immagine più intensa dell’uomo che avverte il crollo di una civiltà, ne denuncia i segni, ma viene annientato da forze che lo sovrastano e non si accontentano di serrargli la bocca, ma mirano ad estinguerne il seme”.

Vista l’orrenda scena, “Enea prende sulle spalle il padre, stringe la mano al figlio, custodisce le statuette dei penati e fugge dalle macerie per edificare una nuova civiltà. Dalle rovine di Troia sorgerà Roma”.

Secondo Colafemmina “lo sguardo di Michelangelo vede compiersi in Savonarola il destino di Laocoonte”. Poi aggiunge che la vicenda “trasformò Michelangelo in nuovo Enea”.

In effetti la Roma che uscì dalle sue mani, dalla Basilica di San Pietro alla Cappella Sistina, dalla Pietà al Mosè, al Cristo Redentore, è una nuova Roma cattolica. E con il Laocoonte cambia anche la storia dell’arte.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 4 dicembre 2022

 

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