La migliore analisi su Maurizio Landini e su Elly Schlein – ieri insieme in piazza a Bologna, alla nostalgica ricerca della sinistra perduta – è stata fatta da Maurizio Crozza.

Nel repertorio del comico genovese – di sinistra – resta memorabile la rappresentazione del sindacalista della Cgil urlante, e con i gettoni nel borsello, alla ricerca (con la Camusso) di una cabina telefonica per informare i giornali di una manifestazione, a bordo di una 128 con la vecchia autoradio dove sentono la cassetta dei New Trolls (per dire che i sindacati sono “una bolla spazio-temporale rimasta imbrigliata negli anni Settanta”).

La satira sulla disconnessione dal presente è confermata dall’iperattivismo del sindacalista di oggi: di colpo – appena è arrivato il governo Meloni – Landini (supportato dai giornaloni) si è accorto di tutto quello che non va, tutto quello che è successo negli ultimi decenni durante i quali proprio la sinistra al governo (in Italia e nella UE) ha prodotto i risultati sociali che lui (oggi) lamenta.

Praticamente la manifestazione di ieri dei sindacati a Bologna era a parole contro il (neonato) governo Meloni, ma in realtà contro il Pd, “partito-sistema” da anni. Infatti la stessa Schlein ha dovuto riconoscere questa verità: “Il Partito democratico sarà saldamente al fianco dei sindacati, anche per rimediare gli errori fatti in passato sulle politiche del lavoro, come il Jobs Act”.

Quindi la Schlein è andata a manifestare contro il Pd da cui infatti era uscita nel 2015 accusando il segretario (e premier) Renzi di essere “di centro-destra”. Un bel cortocircuito politico se si pensa che la piazza di ieri, presumibilmente, era piena di elettori che nel 2014, alle europee, portarono il Pd renziano al 40 per cento.

Una commedia degli equivoci che fa capire la seconda illuminante gag di Crozza sulle primarie del Pd: Schlein era entrata per chiedere ‘c’è un bagno?’ e l’hanno fatta capa del partito”. In effetti è il paradosso di un’esterna che è stata eletta leader di un partito i cui iscritti avevano scelto un altro (Bonaccini).

È il socialismo surreale di questa sinistra che manifesta oggi contro quello che lei stessa ha fatto ieri. Una sinistra spaesata, alla ricerca del tempo perduto e dell’identità rottamata. Una sinistra frastornata dalla disfatta elettorale e angosciata dalla prospettiva di cinque anni di governo Meloni.

L’elettorato di sinistra – diversamente dagli iscritti che preferivano l’usato sicuro della vecchia classe dirigente emiliana – ha cercato di superare lo choc della sconfitta contrapponendo una leader donna alla prima Presidente del Consiglio donna.

Ma la sola politica dell’immagine non consola. Così, per affrontare lo spaesamento, si aggrappano sentimentalmente al passato, al rosso antico di una Cgil landiniana, quella del telefono a gettoni, che ricorda gli anni Settanta, “quando eravamo giovani” e c’era Berlinguer.

Qualcuno però si chiede se la nostalgia è di destra o di sinistra. La seduta di autocoscienza collettiva di quello che resta del popolo di sinistra è in corso nelle sale cinematografiche. I protagonisti sono il film di Walter Veltroni, “Quando”, e l’ultima creazione di Nanni Moretti, “Il Sol dell’avvenire”.

Un mese fa sul “Corriere della sera” diretto da Luciano Fontana, che viene dall’Unità dove fu nominato capo dell’ufficio centrale da Veltroni (allora direttore), il “Corriere” – dicevo – di cui lo stesso Veltroni è attualmente editorialista, è uscito un lungo articolo di Fabrizio Roncone dedicato – appunto – al film di Veltroni, “Quando”.

Roncone, con sobrio distacco, scriveva che il film di Walter “è bello, intenso, pieno di politica e di emozioni”. Poi – con la stessa severità critica – aggiungeva: “Veltroni è un regista che crede nei sentimenti e nella forza del cinema di trasmetterli. Perciò si potrebbe dire che sì, forse è un film di sinistra, se essere di sinistra significa avere la capacità di interpretare il proprio tempo… Infatti non è un film nostalgico (la nostalgia, come sappiamo, è un valore piuttosto destrorso). Certo ci sono botte di pura malinconia (quando Giovanni scopre che al piano terra del palazzo di Botteghe Oscure, storica sede del Partito Comunista, c’è un supermercato)”.

Ridurre una categoria metafisica come la “nostalgia” alla prosa della politica italiana è triste (basterebbe ricordare “La nostalgia del totalmente altro” di Max Horkheimer o “Nostalghia” di Andrej Tarkovskij). Ma per veder confutare la tesi di Roncone bastava leggere “Repubblica” di ieri, la pagina firmata Concetto Vecchio con questo titolo: “Nel tempio di Nanni il pellegrinaggio laico della sinistra smarrita”.

Una pagina che gronda nostalgia da tutte le righe. “Ovvio che la nostalgia c’entra”, dice uno degli spettatori interpellati. E dunque si scopre che la nostalgia – nella politica italiana – è di sinistra. Una nostalgia non soccorsa da una vera elaborazione del lutto, che dovrebbe essere fatta su testi di storici che raccontano come andarono davvero le cose fra Pci e Urss sulla rivolta d’Ungheria.

Perché poi l’idealizzazione nostalgica del Pci si scontra con il ricordo di qualcuno che rievoca l’invasione sovietica della Cecoslovacchiadell’agosto 1968 quando “andammo alle Frattocchie” per avere “una presa di posizione” e “il partito ci stroncò, rispose che era stato un intervento, non un’invasione”.

Meglio dunque restare sul vago sentimento per questa “sinistra smarrita”, sospesa fra un passato rimpianto, ma imbarazzante e il futuro di una modernità “americana” ed europea che la sinistra approva sempre acriticamente, senza la minima riserva critica.

Sospesa anche fra il Landini degli anni Settanta e il Pd che si vantava di dirsi liberale, fra il Pd renziano “di centro-destra” e la Schlein che manifesta contro quel Pd e nome del Pd. Un caos.

Sospesa fra la nostalgia del passato e l’acritica accettazione del futuro deciso dai Mercati, la sinistra sente aprirsi sotto i suoi piedi la voragine di un presente che non sa capire, né affrontare.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 7 maggio 2023

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