Giovanni Lindo Ferretti è riuscito a esprimere in poesia il suggestivo dialogo fra un uomo, il suo cavallo e l’angelo, nel capitolo “il bardo intoni il canto. Singulto”
del suo ultimo libro, “Non invano” (Mondadori). Un dialogo che ricorda quasi le leopardiane “Operette morali”.

D’altra parte, nel suo misterioso e quotidiano ascolto della montagna appenninica e da lì di tutto il creato, Ferretti racconta di aver ricevuto una lezione di teologia, di politica e di filosofia proprio dal comportamento del suo cavallo più amato.

Ma bisognerebbe leggere come poesia, con i giusti spazi di silenzio dopo ogni verso (come qua sotto li trascrivo), pure certe pagine di prosa di questo libro:

“Il passato è ciò che posseggo,

il presente è il tempo che mi è concesso,

il futuro arriva

e mi troverà comunque impreparato.

Il mio aiuto, la mia sola forza,

sta nell’essere radicato.

Una famiglia, una comunità, una terra,

una lingua, una religione.

Usanze, costumi,

modalità dell’essere

e dei comportamenti.

E tutto sta finendo.

Moribondo, quando non già morto”.

Il nuovo libro di Ferretti è un meraviglioso mosaico (perché fatto di frammenti) dove, quasi ad ogni pagina, la prosa ha il passo della poesia. Finché l’autore si arrende a questo sguardo che gli urge dentro esprimendosi spesso in forma di canzone, come gli è più abituale.

UNA STORIA STUPEFACENTE

Ferretti è un uomo straordinario, dalla storia sorprendente che va dal gruppo rock “CCCP Fedeli alla linea” (sintesi di melodico emiliano e di “punk filosovietico”) al cattolicesimo romano più “ratzingeriano”, passando per il gruppo PGR: “Per grazia ricevuta”. Una storia, raccontata nel libro “Reduce” (Mondadori), che è più bella di un romanzo.

Lui vive ora da eremita dell’Appenino, nello spopolato paese dei suoi avi, con l’amata compagnia del silenzio, dei vecchietti del posto, dei santi del cielo, dei suoi cavalli, delle volpi, delle aquile e dei ricordi di quelle montagne e di molte vite, passate dagli altipiani della Mongolia e dalla Berlino comunista, quando c’era la Ddr. Ma oggi soprattutto vive della memoria di secoli e millenni che vede presenti dappertutto.

Ha tanti amici, a valle, che aspettano e seguono con affetto e ammirazione, ogni sua episodica “sortita”. I suoi libri precedenti sono bellissimi: oltre a “Reduce”, non si può perdere “Bella gente d’Appennino” e “Barbarico”(anch’essi usciti da Mondadori).

Ogni libro è una pista di montagna che porta verso panorami inesplorati e affascinanti. Tutte queste piste si intersecano, insieme a molte altre, in questo nuovo volume.

C’è ancora uno struggente flash autobiografico che riporto così come lo ha scritto:

“Il 17 gennaio 1953 il corpo di mio padre morto d’improvviso veniva riconsegnato alla terra. Con lui veniva rimessa la legittimità di una ininterrotta sequela di generazioni di pastori, allevatori di montagna. Nella disgrazia s’inabissava il nostro orizzonte, con il capofamiglia seppellivamo intero il nostro mondo. Io c’ero, in atto e in potenza, ma della mia esistenza solo un vago sentore.

  • Se c’è, lo tieni. Promettimelo – le sole parole di mio padre, a mia madre, per me.

Davanti a noi l’ignoto affidato alle forze di una giovane moglie vedova, alle preghiere di una vecchia madre: – Porterà il nome di suo padre –”.

Il padre è la radice, poi ritrovata da Ferretti facendo un giro immenso che arriva fino alla Mongolia eterna, la misteriosa terra dove è rimasta intatta la pastorizia nomade che fu spazzata via dall’agricoltura, poi superata dalla tecnologica industria moderna.

TEMPI OSCURI

C’è, nelle pagine di Ferretti, la drammatica percezione dell’avvento del nuovo, oscuro medioevo in cui siamo entrati. Per capirlo – dice – “non basta ripercorrere il succedersi degli accadimenti, l’avvicendarsi delle persone, bisogna contemplare i crolli e gli affioramenti che l’hanno segnato: la caduta del Muro di Berlino, la grande Germania, la scomparsa della Yugoslavia, l’implodere dell’URSS e il riemergere della Russia, l’annichilire della cristianità d’Occidente nell’Eurozona e il martirio del Medio Oriente, il ridestarsi dell’Umma e il delinearsi di Eurabia. Il prorompere della Rete e il tocco digitale in atto. La rinuncia di XVI Benedetto”.

Questi eventi sono le svolte della nostra generazione. Che arriva oggi fino a carezzare l’utopia scientista di una “nuova umanità” costruita in laboratorio, una “nuova religione”. Oscura.

RADICI APPENNINICHE

E poi c’è l’Appennino, dove sono le sue radici e le radici della civiltà italica: “Non essere sradicato dalla mia storia, questa è la mia dote, la forza dei miei giorni”. Tanto più necessario in questo tempo di “sradicamento” che “sradica” tutto e che “delle radici fa cimeli d’antiquariato”.

Dell’Appennino l’Italia oggi si ricorda solo quando c’è un terremoto, perché solitamente infierisce su questa spina dorsale della penisola. Ma i terremoti danno solo il colpo di grazia a questa millenaria civiltà già morente.

Tuttavia Ferretti non è un nostalgico: “Chi evoca con sguardo tradizionalista il passato lo arricchisce d’aura bio/romantica, naturalmente buona, di un tempo che fu senza essere mai stato. Nel tempo che fu era ben evidente che questa è una valle di lacrime, oltremodo coinvolgente”.

Il suo è sempre uno sguardo cattolico, dove ciò che è essenziale per la vita, l’eterno, non solo è accaduto duemila anni fa ed è fiorito meravigliosamente fino alla storia cristiana recente (e oggi rinnegata) dei nostri padri e delle nostre terre, ma accade oggi: “i monaci fortificano il presente conservando il passato custodendo il sacro aprono al futuro tendendo all’eterno difendono la libertà la dignità dell’uomo nelle diverse contingenze storiche”.

Le pagine più commoventi del libro sono quelle dove l’autore racconta la storica e festosa pacificazione – la perdonanza – fra due paesi appenninici, storicamente avversi, Cerreto Alpi e Sassalbo, sotto il patrocinio di San Michele Arcangelo e San Giovanni Battista, patroni delle due parrocchie:

“Una processione cadenzata sui canti tradizionali, Salve Regina e litanie, Mira il tuo popolo, Nome dolcissimo, O del cielo gran Regina, Dell’aurora tu sorgi più bella, all’arrivo in paese le campane slegate a festa e le case, sasso su sasso, a far cassa armonica d’arenaria amplificando la potenza, la commozione: Inni e canti sciogliamo o fedeli… per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà. Sì, stiamo cantando di noi. La chiesa che veglia sull’abitato, lo sostiene e lo protegge, ci accoglie. Poi al suono della zampogna ci avviamo all’apparecchiata, in piazza, tavoli colmi di cibo portato da ognuno e buon vino”.

NON INVANO

Ecco perché “non invano”. La spiegazione del titolo del libro sta in questo pensiero: “Sempre più spesso rifletto sul non invano, ciò che resta nel passare delle generazioni e mi ritrovo con le stesse poche parole riconducibili alla dottrina della mia infanzia: le virtù, quelle teologali – fede speranza carità – un dono più che una conquista, e quelle cardinaliacquisibili invece con l’esperienza, per via: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. In quotidiana disciplina”.

Non è più necessario essere fedeli alla linea (anche perché non c’è linea). Basta essere semplicemente fedeli.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 30 luglio 2020

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