Due giorni fa, nella cattedrale di Nottingham, sono risuonate la struggenti parole di un padre, Dean Gregory, che ha scritto una lettera sulla figlia, la piccola Indy, di cui si celebrava la messa funebre.

In queste settimane di polemica contro il cosiddetto “patriarcato”, in cui si vorrebbero mettere le donne contro gli uomini, colpevolizzandoli tutti, Dean ha fatto comprendere cos’è un padre e quanto ne abbiamo bisogno.

Egli ha ricordato la sua bambina come una bellissima e coraggiosa lottatrice: non solo contro una malattia tremenda, ma anche contro un sistema ingiusto.

Ha ringraziato il governo italiano e Giorgia Meloni (che hanno offerto a Indy la possibilità di una seconda diagnosi in Italia, che purtroppo non è stata concessa). E ha ricordato il popolo italiano con commozione (ci ha definiti “angeli custodi”).

Ha fatto capire tutta la sua sofferenza: Ero persino disposto a scendere nelle fosse dell’inferno per combattere e proteggere lndi. In un certo senso l’ho fatto, perché il sistema giudiziario stesso mi sembrava un inferno”.

Infine ha confidato cosa lo consola: il mio più grande conforto, in questo momento difficile, è sapere dove si trova lndi e con chi è ora. Ho fatto battezzare lndi per proteggerla e per farla andare in Paradiso. Mi dà pace sapere che è in Paradiso e che Dio si sta prendendo cura di lei”.

Le parole di questo giovane e coraggioso papà ricordano una splendida canzone di Marco Mengoni, “Guerriero”, che dice: “E levo questa spada alta verso il cielo/ Giuro sarò roccia contro il fuoco e il gelo/ (…) Io sono un guerriero, veglio quando è notte/ Ti difenderò da incubi e tristezze/ E ti abbraccerò per darti forza sempre/ Ti darò certezze contro le paure/ Per vedere il mondo oltre quelle alture/ Non temere nulla io sarò al tuo fianco/ Con il mantello asciugherò il tuo pianto”.

Viene in mente anche una pagina bellissima di una grande poeta, Charles Péguy, che, negli anni in cui già si annunciavano all’orizzonte “padroni” che con i loro miti ideologici volevano dominare e guidare l’umanità, spodestando i padri, scrisse: “C’è un solo avventuriero al mondo e lo si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia. Solo il padre di famiglia è letteralmente coinvolto nel mondo. Perché gli altri, al maximum, vi sono coinvolti solo con la testa, che non è niente. Lui invece è coinvolto con tutte le sue membra. Niente di quello che succede, niente di storico è, per i padri, indifferente. Soffrono di tutto. Chi non ha mai avuto un bambino malato non sa cosa sia la malattia. Gli altri scantonano sempre. Il padre di famiglia è condannato a non riuscire affatto. Non può mai scantonare”.

Il patriarcato, nella sua accezione deteriore (come prepotenza maschile), sta al padre come la polmonite ai polmoni. È il suo opposto. La polmonite va eliminata, ma se elimini i polmoni muori. Per duecento anni hanno provato a “uccidere Dio”. Poi, con il ’68, si è spazzato via il padre. E quegli anni si riempirono di padroni a cui una generazione di figli illusi andò dietro come i topolini con il pifferaio di Hamelin. Fu un disastro.

Oggi si è lanciata un’offensiva contro il “patriarcato” che in realtà vuole spazzare via l’ordine naturale dell’umanità: l’alleanza dell’uomo e della donna e il loro amore per i figli necessario a farli diventare uomini e donne vere.

In ogni generazione i padri devono imparare a essere padri, capaci di amore vero, quello che si dona, non quello che possiede; quello che fa sacrificare se stessi per chi si ama, non quello che pretende di asservire gli altri a sé (come fanno appunto coloro che si ritengono padroni).

Forse le polemiche ideologiche di oggi sono dovute proprio al fatto che c’è un fortissimo bisogno di padri. Non si tratta solo di padri biologici, ma anche maestri e testimoni: tutti siamo chiamati a una paternità (e maternità) spirituale. A una testimonianza morale.

Qualche anno fa, Massimo Recalcati con “Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre” (Feltrinelli) suscitò un grande interesse perché cercò di fotografare “il nuovo disagio della giovinezza”. Partiva da un articolo di Eugenio Scalfari che era intitolato: “Il padre che manca alla nostra società”.

Recalcati richiamava, fin dal titolo, i protagonisti di un poema, l’Odissea, che è un pilastro della nostra civiltà. Il poema che parla di una terra senza re e del faticoso ritorno del re, Ulisse.

Telemaco, il figlio di Ulisse, “guarda il mare, scruta l’orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà”.

Oggi – secondo Recalcati – “noi siamo nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma siamo anche nell’epoca di Telemaco;
le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni”.

Secondo Recalcati “la domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di un’autorità meramente repressiva e disciplinare, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità”.

Concordo con Recalcati, ma credo che questo “padre radicalmente umanizzato, vulnerabile” possa testimoniare non solo “che la vita può avere un senso”, ma anche (e soprattutto) “qual è il senso ultimo della vita”. Questo è il più grande bisogno.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 3 dicembre

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