Sabato scorso uno studente tedesco è stato denunciato per aver “grattato” una parete del Colosseo provocando il distacco di un piccolo frammento. Alcuni giorni fa altri due turisti vi avevano inciso delle scritte. Tre casi. Speriamo che non diventi la moda dell’estate.

Si può minimizzare riducendo tali episodi a semplici esempi di maleducazione da multare. Ma purtroppo i monumenti e i beni artistici italiani, da decenni, collezionano sciocchi graffiti, con nomi, disegni, date e idiozie varie.

Cosa può spingere una persona a deturpare il Colosseo, o un altro monumento, per far sapere al mondo che egli esiste o che ama qualcuno, oppure per informare i posteri che lui è passato di lì un certo giorno (come se fosse Napoleone o Garibaldi)?

Anzitutto si tratta di povertà culturale. Uno di questi scribacchini si è giustificato: non sapeva che il Colosseo è antico. Forse è una banale e comica scusa, trattandosi di un turista venuto appunto a visitare Roma. Ma non sarei così sicuro che tutti i turisti che arrivano all’Anfiteatro Flavio sappiano cosa stanno guardando.

Una guida romana ha riferito che qualche visitatore le ha chiesto perché avessero costruito quel monumento così vicino alla stazione della metropolitana.

D’altronde deturpare beni artistici – o non salvaguardarli, non averne cura – è uno dei tanti esempi della disperante perdita di memoria storica della nostra epoca: siamo i moderni, gente di sconfinata sicumera e di smisurata povertà culturale e spirituale.

Forse avremmo bisogno della pietà di qualcuno (padri o maestri o monaci o saggi) disposto a prendere per mano la nostra generazione e a farle scoprire e capire cos’è la terra in cui viviamo e di che lacrime grondi e di che bellezza e di quale ricchezza umana.

Una seconda ipotesi. Potrebbe esserci, negli scribacchini, la (più o meno inconscia) illusione che scrivere il proprio nome su un monumento millenario, che sfida i secoli ed è ammirato da tutti, perpetui pure la memoria di chi lascia inciso il suo nome (come se ne fosse lui l’autore).

In questo caso – che voglio sperare non sia reale – viene in mente la poesia di Trilussa: “La lumachella de la Vanagloria,/ ch’era strisciata sopra un obbelisco,/ guardò la bava e disse:  – Già capisco/ che lascerò un’impronta ne la Storia”.

C’è un terzo caso possibile: il cafone strafottente, un po’ megalomane, che se ne frega di tutto e di tutti e vuole semplicemente fare una bravata senza curarsi di danneggiare un bene pubblico che è patrimonio dell’umanità. Non mancano, in giro, esemplari di questo tipo, ma penso – e voglio sperare – che frequentino altri luoghi e non siano fra coloro che pagano un biglietto per vedere un monumento antico o delle opere d’arte.

In ogni caso, qualunque sia il motivo per cui si lasciano queste scritte ci sono due contromisure da prendere: la prima è un’accurata vigilanza che prevenga e che multi salatamente chi compie atti vandalici, anche di questo tipo.

La seconda contromisura consiste nel dovere delle pubbliche amministrazioni di prendersi cura delle nostre città.  Sappiamo infatti da molti studi che sui comportamenti individuali ha una grande incidenza l’ordine o il disordine visibile di un certo contesto.

Per esempio: è psicologicamente più facile, viene più spontaneo (magari senza rifletterci), buttare in terra una cartaccia se si sta camminando su una via sconnessa, sporca, piena di monnezza e di erbacce. Se invece ci si trova all’interno di un museo o di una grandiosa basilica, bella, pulita e ordinata, scatta una sorta di auto-proibizione interiore. Pure se nessuno ci vede.

Dunque, se consideriamo in quali condizioni si trova Roma, che peraltro sarebbe di per sé un’opera d’arte a cielo aperto, difficilmente possiamo illuderci che scatti, nelle masse di turisti, l’idea del rispetto sacrale dei luoghi. Probabilmente molti di loro sono indotti a pensare che gli italiani non ci tengono così tanto alle loro città e alle loro meraviglie.

Un’ultima considerazione: forse, in qualche caso, questa voglia di lasciare una traccia di sé, è, in realtà, il sintomo di un’insicurezza esistenziale, a volte rabbiosa. Potrebbe manifestare il bisogno di essere in qualche modo vivo e presente per qualcuno.

Anche una solitudine individuale di questo tipo è parte dello smarrimento collettivo che connota la decadenza della civiltà. Proprio come antidoto a questa notte dell’occidente è necessario aver cura eamore per le tracce materiali della nostra storia e della nostra cultura.

Mi capita spesso di citare una pagine di “Viaggio in Italia” di Guido Ceronetti che è particolarmente lucida: “Finché esisteranno frantumi di bellezza, qualcosa si potrà ancora capire del mondo (…). Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilità del mondo”.

Poco oltre lo scrittore si chiede retoricamente: “che cos’altro si può essere in un paese come questo se non disperatamente conservatori?”

E spiega: “C’è solo da conservare: pietre animali fiori erbe colline angoli profili muri volte voltoni logge giardini tombe statue pitture finestre orti umidità stalattiti palme ulivi salici lecci ombre luci stagioni libri metope stucchi tavolini cassapanche mestieri proverbi linguaggi cucina utensili fogli di lettera cartoline stazioni, costringendo le istituzioni a servire principalmente a questo disperato scopo, impegnando una lotta assurda e fantastica contro il Tempo e la Necessità”.

Qualche anno fa è uscita, da Feltrinelli, una raccolta di scritti di Giorgio Bassani“Italia da salvare (Gli anni della presidenza di Italia Nostra 1965-1980)”. Lo scrittore ferrarese fu un fondatore di “Italia Nostra”.

In una delle citazioni iniziali del libro si legge: L’Italia è un Paese sacro non soltanto per noi, ma per il mondo intero… Bisogna che noi, per noi stessi innanzi tutto, ma anche per il mondo intero che deve aiutarci, riusciamo a salvare, a conservare il patrimonio artistico e naturale italianosiamo dei conservatori, perché siamo dei progressisti”.  

 

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 17 luglio 2023

 

 

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