La cerimonia di incoronazione di Carlo III di nuovo stupisce e suscita molte considerazioni. Come per i funerali di Elisabetta II, abbiamo visto un intero popolo, un grande popolo come quello britannico, partecipare con commozione (per la regina) e con entusiasmo (per Carlo) a quei riti antichi, riconoscendosi nella sua storia, in quei simboli “medievali”, in quelle cerimonie religiose piene di richiami alla tradizione.

Addirittura con il crisma per l’unzione del sovrano che è arrivato da Gerusalemme ed è stato consacrato dall’arcivescovo anglicano Hosam Naoum e dal patriarca ortodosso Teofilo III (a causa delle origini greche, quindi ortodosse, del padre Filippo).

Eppure si tratta di un grande Paese “moderno e laico”, come dicono i nostri salotti intellettuali progressisti, anzi uno dei maggiori simboli della modernità laica. Come si spiega dunque un simile paradosso?

È comprensibile l’imbarazzo dei nostri “intellettuali illuminati” che, sempre esterofili, da decenni indicano Londra come faro della civiltà moderna e poi si ritrovano davanti a un rito monarchico intriso di antiche tradizioni e di sacralità.

Oltretutto in Gran Bretagna il re – dopo lo scisma di Enrico VIII – è pure capo della Chiesa anglicana (con buona pace della laicità) e giura sulla Bibbia. Del resto tale giuramento viene fatto anche dai presidenti eletti negli Stati Uniti repubblicani.

Così viene rovesciata completamente la narrazione dei nostri “intellettuali illuminati”, i quali – al seguito delle vecchie idee delSismondilamentano il fatto che l’Italia non abbia avuto una riforma protestante e sia perciò (a loro dire) culturalmente e civilmente arretrata.

Come diceva un mio professore di università, il marxista Franco Fortini, il motto degli intellettuali che si riconoscono nella “Repubblica” e nell’“Espresso” è: “come sarebbe bello se l’Italia fosse l’Inghilterra”.

L’imbarazzo è evidente. Ieri Francesco Merlo, su “Repubblica”, ha espresso apertamente le sue critiche alla cerimonia londinese. Ha bocciato “le Loro Altezze” che “non erano all’altezza” e ha stabilito che “sarebbe stato meglio rinunziare alla cerimonia dell’incoronazione, che è simbolica e non necessaria”. Infine ha affermato che quel rito “non trasmetteva né il fascino, né all’allegria della più inattuale delle fantasie intellettuali e popolari, ma solo una pesantezza patetica, falsa, sfarzosa e, alla fine, reazionaria” (sebbene a Londra siano stati attentissimi al “politically correct”).

Dunque, secondo Merlo, “per una volta stiamo meglio noi” con Mattarella al secondo mandato e quei 14 anni che “creano il mito del re repubblicano”.

Dubito che il Presidente – il quale peraltro ha partecipato alla cerimoniadi incoronazione di Carlo III – possa mai riconoscersi come “re repubblicano” e d’altra parte Merlo usa questa formula paradossale proprio perché comprende che ogni popolo ha bisogno di simboli che confermino la sua identità e rappresentino la sua unità.

Di certo in Italia non rimpiangiamo i Savoia, né invidiamo i Windsor ai britannici: ci teniamo stretta dunque la nostra Repubblica. Però il bisogno di riconoscersi come popolo in una storia, in certe radici culturali, in un’identità e nei suoi simboli non si può eliminare sostenendo che ogni sette anni eleggiamo un Capo dello Stato.

Va bene l’istituzione repubblicana. Ma qua abbiamo a che fare con un bisogno più profondo, che è culturale e anche spirituale. Un bisogno di radici, da difendere e amare come le nostre tradizioni, la nostra storia, per sentirci un popolo. Ormai sembra che solo con il calcio sia permesso agli italiani di rivendicare la propria identità nazionale e riconoscersi in una bandiera.

Le nostre classi dirigenti, sempre esterofile, fanno ogni giorno professione di cosmopolitismo e l’europeismo è diventato un argomento polemico contro l’identità nazionale (anche per l’assurdità delle politiche della Commissione europea, spesso avverse alla vita della gente).

Eppure anche papa Francesco, nel recente viaggio in Ungheria, ha chiesto che l’Europa non si trasformi “in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto”.

L’uomo senza radici e senza patria prospera nei salotti intellettuali, ma i popoli sentono il bisogno di radici e restano affascinati quando vedono altri popoli vivere la loro storia e le loro tradizioni. Lo dimostra il fatto che non solo i britannici (e questo è normale), ma pure molti italiani sono rimasti incollati al televisore a seguire le immagini provenienti da Londra.

Ieri, per esempio, il “Corriere della sera”, il principale quotidiano italiano, dedicava cinque pagine alla cerimonia di incoronazione. Dubito che qualcuno se le sia sorbite tutte. Però è certo che le immagini di Londra abbiano esercitato un certo fascino da noi. Come si spiega? Perché c’è bisogno di simboli che uniscano e che tramandino e difendano un’identità nazionale. Perché lì si radica anche la libertà dei popoli.

Un moto filosofo britannico, Roger Scruton, ha scritto: “Le democrazie devono la loro esistenza alle lealtà nazionali – lealtà che si presume siano condivise da governo e opposizione, da tutti i partiti politici e dall’elettorato nel suo insieme. La democrazia non si è mai radicata dove l’idea di nazionalità sia debole o addirittura inesistente… Tuttavia, l’idea di nazione è ovunque sotto minaccia – disprezzata o, perfino, accusata di essere causa di guerre e conflitti”.

Ma confondere il patriottismo con il nazionalismo è come confondere il polmone con la polmonite e lo si fa, spiega Scruton, per desovranizzare gli stati-nazione e trasferirne altrove i poteri.

Così però si sradicano le identità dei popoli e la loro libertà. Come scriveva il nostro Leopardi: La patria moderna dev’essere abbastanza grande, ma non tanto che la comunione d’interessi non vi si possa trovare, come chi ci volesse dare per patria l’Europa. La propria nazione, coi suoi confini segnati dalla natura, è la società che ci conviene. E conchiudo che senza amor nazionale non si dà virtù grande”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 8 maggio 2023