L’USO POLITICO DELLA PAURA. COSA STA VERAMENTE ACCADENDO (Bernard Henri Lévy, Giorgio Agamben e Jacques Attali)
La pandemia è un’immensa sciagura, per tutti i popoli. Ma c’è stato (e c’è) un uso politico della paura da parte di certe élite di governo? E con quali scopi? Ha ragione chi ritiene che sia in corso un gigantesco e inquietante esperimento politico?
A parlarne sono alcuni pensatori “non allineati” che subito il sistema mediatico delegittima bollandoli come “complottisti”. Ma a notare che qualcosa di strano sta accadendo è anche – per esempio – il pensatore simbolo dell’europeismo mainstream, Bernard Henri Lévy, che ha appena pubblicato un libro: “Il virus che rende folli”.
Lévy nota, giustamente, che l’epidemia di Covid non è stata affatto una novità apocalittica nei nostri anni. Rammenta l’influenza di Hong Kong, “dopo il maggio ‘68”, che fece un milione di morti “per emorragia polmonare o soffocamento” o, dieci anni prima, l’influenza asiatica, arrivata sempre dalla Cina, che fece due milioni di morti.
Ma allora non si verificò il panico planetario di oggi. Lévy si dice “raggelato”, ma non dalla pandemia: dal “modo molto strano in cui abbiamo reagito questa volta”, dall’“epidemia di paura che ha attanagliato il mondo”.
Infatti “abbiamo visto le città di tutto il mondo diventare città fantasma. Abbiamo visto tutti, da un capo all’altro del pianeta… popoli interi tremare e farsi trascinare nelle proprie abitazioni, a volte a colpi di manganello, come animali selvatici nelle loro tane”.
Lévy si chiede se è la “vittoria dei saggi del mondo che vedono in questo grande confinement – (…) il ‘grande internamento’ teorizzato da Michel Foucault nei testi in cui descriveva i sistemi di potere del futuro – la prova generale di un nuovo tipo di fermo e di arresto domiciliare dei corpi”. Oppure se è “il contrario” ovvero “il segno, rassicurante, che il mondo è cambiato, che finalmente sacralizza la vita e che tra questa e l’economia, sceglie la vita”.
La seconda ipotesi mi sembra radicalmente confutata da molti fatti e dati che mostrano come la vita umana nel mondo abbia totalmente perso la sua sacralità.
Resterebbe la prima, ma purtroppo Lévy non la analizza. Certo, nota che “è stata la prima volta che abbiamo visto tutte le menti critiche della galassia di ultrasinistra applaudire a uno stato di emergenza”. Ma si ferma alla protesta contro la paura.
Cita però di sfuggita il filosofo italiano Giorgio Agamben che – essendo di sinistra – ha scatenato malumori e polemiche proprio a sinistra perché, riflettendo sulle “conseguenze etiche e politiche” della tempesta Covid ha colto “la trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di eccezione andavano disegnando”.
Nel suo libro “A che punto siamo?” valuta la vicenda Covid “in una prospettiva storica più ampia” e conclude che qualcosa di importante si stava (e si sta) sperimentando.
Scrive: “Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano ormai più adeguati alle nuove esigenze (…) i poteri dominanti hanno deciso di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro”.
Davvero si può usare politicamente “il pretesto di una pandemia” o Agamben esagera? In effetti c’è chi, già qualche anno fa, ha invitato a “usare” proprio una eventuale pandemia per scopi politici (ovviamente, a suo avviso) lodevoli.
Nel 2009 – quando si paventava la diffusione dell’influenza suina – il famoso economista e tecnocrate francese Jacques Attali, da acuto analista, in un articolo su “L’Express”, scrisse: “La Storia ci insegna che l’umanità non si evolve in modo significativo se non quando ha davvero paura: essa allora mette in campo anzitutto dei meccanismi di difesa; a volte intollerabili (i capri espiatori e i totalitarismi); a volte inutili (la distrazione); a volte efficaci (strategie terapeutiche, respingendo se necessario tutti i precedenti principi morali). Poi, una volta terminata la crisi, trasforma questi meccanismi per renderli compatibili con la libertà individuale e includerli in una politica sanitaria democratica. Questa iniziale pandemia” scriveva Attali “potrebbe innescare una di queste paure strutturali”.
In particolare Attali, prevedendo la necessità di governare “meccanismi di prevenzione e controllo” per “un’equa distribuzione di farmaci e vaccini”, scriveva: “Verremo quindi, molto più velocemente di quanto avrebbe prodotto la sola ragione economica, a gettare le basi di un vero governo mondiale” e “nel frattempo potremmo almeno sperare nella messa in opera di una vera politica europea in materia”.
Attali nel 2006 aveva pubblicato “Breve storia del futuro” e già lì vagheggiava un “governo mondiale” che segnava la fine dell’egemonia americana e vedeva “l’Unione europea avanguardia dell’iperdemocrazia”. Ma quella sua utopia aveva i tratti di una cupa distopia.
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Antonio Socci
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da “Libero”, 3 agosto 2020