“Io sono il più forte che tu hai conosciuto, sono il più forte di tutti. Anche se mi batti resto il più forte”. Con tale sicumera Eddie Felson (interpretato da Paul Newman) si rivolge a Minnesota Fats nel film “Lo spaccone”.

E questo – in sintesi – è il messaggio lanciato ieri da Matteo Renzi alla Conferenza del Pd a Portici. Solo che è rimasto quasi l’unico a pensarlo, specialmente dopo la batosta nel referendum del 4 dicembre, che gli è costata la guida del governo, dopo la bocciatura dell’Italicum da parte della Corte Costituzionale, dopo la sconfitta delle amministrative, dopo l’umiliazione del Pd (marginalizzato) nel referendum Lombardo-Veneto e dopo la sberla inflittagli dal governo Gentiloni sulla nomina di Visco a Bankitalia.

L’umore degli italiani gli è alquanto ostile a giudicare dai sondaggi che danno il Pd in picchiata e se alle prossime regionali siciliane il Pd affonderà – come pare probabile – per Renzi si mette malissimo. Si dice che già sia pronta la fronda.

Molti infatti nel suo partito pensano che la sua defenestrazione sarebbe l’unica strada per ricomporre una coalizione di centrosinistra da portare alle elezioni, perché oggi l’ostacolo, l’unico ostacolo, è proprio lui.

Già al suo primo apparire fu trattato da lebbroso dall’establishment del partito. Poi, con la mancata vittoria di Bersani del 2013, è stato salutato come “la soluzione”. Però, dopo tre anni di potere incontrastato gestito in modo a dir poco arrogante, è diventato “il problema”.

La micidiale parabola politica di tutti i leader è stata ripetuta da Renzi, ma bruciando le tappe. Ha 42 anni e sta già sullo stomaco al mondo intero, a cominciare dai suoi. Rischia davvero di diventare “er puzzone”.

Dappertutto aizza scontri e raccoglie ostilità. Ha intrapreso un giro dell’Italia in treno che doveva essere una marcia trionfale ed è finita fra fischi e insulti in tutte le stazioni (sono mancati solo i forconi).

Ha cercato di riciclarsi in chiave populista attaccando Bankitalia e il suo governatore ed è stato come se si fosse macchiato di lesa maestà (le ragioni erano giuste, ma lui era la persona sbagliata per parlare di banche).

I numi (Draghi, Mattarella e Napolitano) lo hanno fulminato e si è capito quanto è caduto in disgrazia nell’establishment quando perfino Scalfari – un suo simpatizzante – gli ha augurato perfidamente di “guarire dall’isterismo, altrimenti deve mettersi nelle mani d’un neurologo”.

Per ripicca – avendo incassato la sconfitta – Renzi ha fatto disertare il Consiglio dei ministri dai “suoi”.

Poi si è scontrato pure col presidente del Senato Grasso che ha fiutato l’aria di disfatta che c’è attorno a Renzi e – dopo la fiducia sulla legge elettorale – ha clamorosamente sbattuto la porta del Pd lanciandogli un missile micidiale: “La misura è colma, politicamente e umanamente”, ha detto Grasso. Lasciare il Pd, ha aggiunto, “è l’unica scelta che possa certificare la distanza da una deriva che non condivido”, “ho ritenuto di lasciare questo Pd perché non mi riconosco più né nel merito né nel metodo”.

Ora è pronto a farsi incoronare dagli antirenziani del Mdp. Il fiorentino somiglia a un pugile suonato e sembra collezionare un errore dietro l’altro.

Si sono visti perfino sarcastici corsivi di Massimo Gramellini sul “Corriere della sera” che sono un pessimo segnale.

Per il comizio tenuto in una chiesa di Paestum Gramellini ha infierito: “Chi avrà suggerito a un omino riservato come Renzi di tenere un comizio dentro una chiesa, all’insaputa del parroco e del Padreterno, l’unico candidato che il Pd avrebbe qualche probabilità di fare eleggere nei collegi a nord di Bologna con la nuova legge elettorale?”

Così Matteo ha finito per litigare pure con i cattolici (anche se Bergoglio con le chiese ha fatto ben di peggio).

Subito dopo, per cercare di recuperare alla meglio una situazione disperata (quella siciliana), Renzi – andando nell’isola – è incorso in un altro scivolone. Per sostenere il candidato del Pd Micari ha parlato dei “padri della Dc” dando la possibilità al candidato della Sinistra, Claudio Fava, di affondare il colpo parlando di “nefandezze politiche” a proposito del passato della Dc a Catania.

D’altra parte la pretesa di Renzi di presentarsi oggi come figlio della Dc, avendone rinnegato l’identità, è goffa e nessuno abboccherà. Peraltro lui guida il partito dei postcomunisti, ma è detestato dagli stessi postcomunisti come un alieno.

Nessuno saprebbe definire cosa sia Renzi dal punto di vista politico, culturale, ideologico. Renzi è un partito a sé, personale e monocratico. E questo egocentrismo politico poteva anche avere successo se – dopo la prima sconfitta alle primarie del Pd – avesse avuto il coraggio e la sfacciataggine di Macron e avesse fatto davvero un suo partito. Ma non ebbe il fegato.

Così ha preso il potere nella “ditta”, imbarcando tanti ex bersaniani che ora aspettano solo la prossima sconfitta per cambiare di nuovo casacca.

Renzi è il migliore dei peggiori. Qualche volta dice anche cose giuste. Per esempio questa: “i commentatori sembrano ignorare l’intreccio perverso che c’è stato per 15 anni in Italia tra interessi aziendali, editoriali, dinamiche politiche con la vigilanza bancaria. Dirlo non è populismo ma è politica”.

Ma la coerenza non è il suo forte. Dice tutto e il suo contrario. Prima del referendum del 4 dicembre promise solennemente che se perdeva “non solo vado a casa” come premier, “ma smetto di far politica”. Infatti rieccolo.

In effetti se Renzi fosse un film sarebbe proprio “lo spaccone”. Se fosse un libro porterebbe il titolo “Un grande avvenire dietro le spalle”. Se fosse un piatto sarebbe il bollito, anzi la ribollita.

Se fosse un personaggio televisivo sarebbe Fonzie, non solo per il giubbotto, ma soprattutto per la proverbiale incapacità fisica del personaggio di “Happy Days” di articolare le parole “ho sbagliato”.

 

Antonio Socci

Da “Libero, 29 ottobre 2017

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