Ritrovare il mitico affresco di Leonardo“La Battaglia di Anghiari” – nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze, sarebbe un avvenimento eccezionale. Ma allora perché non portare a termine le sue ricerche?

Oltretutto si possono sviluppare strumenti d’indagine che potrebbero permettere di rintracciare anche altri capolavori perduti. L’“inventore” di Vinci ne sarebbe assai incuriosito.

Nel mondo da anni dilaga la “leonardomania”. Il nostro è considerato il simbolo del genio italiano. Ce lo ricorda anche la mostra, in corso a Washington, di dodici fogli del “Codice Atlantico” dove sono i disegni originali delle sue macchine fantastiche e dei suoi avveniristici progetti.

Il titolo dell’esposizione, realizzata da Confindustria (insieme alla Biblioteca Ambrosiana) per esaltare il Made in Italy, è emblematico: “Imagining The Future. Leonardo da Vinci: In The Mind Of An Italian Genius”.

È facile intuire la risonanza planetaria che avrebbe il ritrovamento dell’affresco in Palazzo Vecchio e prevedere l’“assalto” di media e visitatori. Ma le ricerche dovrebbero essere portate a compimento perché quell’opera è davvero una pagina fondamentale del nostro Rinascimento. È un patrimonio dell’umanità e – per quanto l’Italia sia ricca di beni artistici – è assurdo rinunciare al suo possibile ritrovamento.

Del resto alcune personalità e istituzioni straniere hanno contribuito, nei decenni scorsi, alle ricerche, non solo per ammirazione verso Leonardo, ma anche perché affascinate dal giallo della “scomparsa” del dipinto e dalle descrizioni (piene di ammirazione) che ci sono pervenute.

È una storia – quella delle ricerche – lunga alcuni decenni. L’ha ricostruira (meritoriamente) fin nei dettagli Stefano Corazzini nel libro “Cerca trova (Leonardo da Vinci e La Battaglia di Anghiari. Storia della ricerca)”, appena pubblicato da Nardini.

Cominciamo dall’inizio. Nell’ottobre 1503, per volontà del Gonfaloniere di Giustizia, Pier Soderini, capo della Repubblica fiorentina, Leonardo fu incaricato di realizzare, nella Sala del Maggior Consiglio, un affresco che rappresentasse la vittoria dell’esercito di Firenze sulle truppe milanesi, avvenuta il 19 giugno 1440 presso Anghiari.

Nella stessa sala un affresco analogo, di fronte a quello leonardesco, per celebrare la vittoria militare fiorentina nella battaglia di Cascina contro i pisani, fu commissionato a un altro artista di quegli anni, più giovane di Leonardo, ma già di strepitosa fama: Michelangelo Buonarroti.

Fra i due non correva buon sangue. Ognuno lavorò per suo conto e, come era prevedibile, ci fu una certa rivalità. Realizzarono così due cartoni preparatori (la fase preliminare dell’affresco: il disegno su carta) che incantarono tutti. Si annunciavano due capolavori. Tanto è vero che Benvenuto Cellini li definì “la scuola del mondo” per l’interesse che le due opere suscitarono fra gli altri pittori e fra la gente.

Michelangelo però, richiamato a Roma dal Papa, non trasferì mai i disegni sulla parete e “il cartone originale è sfortunatamente scomparso”. Invece Leonardo – realizzato il disegno – nella primavera del 1505 allestì il cantiere nella Sala e il 6 giugno cominciò “a colorire” sulla parete.

Sennonché proprio quel giorno, alle ore 13, si scatenò su Firenze un temporale (c’erano anche a quel tempo le “bombe d’acqua”) e – scrive il pittore – “il cartone di straccò” e “l’acqua si versò”.

Nonostante l’imprevisto l’artista riprese a dipingere, “attività che presumibilmente” scrive Corazzini “va avanti fino al maggio del 1506, quando Leonardo abbandona tutto e parte per Milano”.

Tornerà poi a Firenze varie volte, ma senza mai completare l’opera, nonostante le disperate e irate richieste del Soderini che si dovette infine arrendere al Re di Francia Luigi XII che voleva Leonardo oltralpe.

Pare che a indispettire il pittore e a fargli decidere di andarsene sia stato il fatto che – per il suo desiderio di sperimentare sempre nuove tecniche di affresco, come aveva fatto a Milano con “L’Ultima Cena” – il colore si sia deteriorato.

Non si capisce quale sia stata l’entità del danno perché – dopo la partenza dell’artista – ci sono testimonianze (ammirate) sulla bellezza delle figure leonardesche e vengono anche realizzate diverse copie da vari pittori (nel 1513 si costruisce perfino una struttura in legno “per difenderle che la non sieno guaste”).

Una lettera del 1549 di Anton Francesco Doni, ad Alberto Lollio, ancora ne parla invitando il destinatario ad andare a vedere l’affresco (“un gruppo di cavalli e d’uomini che vi parrà una cosa miracolosa”).

Di lì a poco – per volere del Granduca Cosimo – la Sala viene assai alzata e ingrandita, rifatta e affrescata da quello stesso Giorgio Vasari che nelle sue “Vite” aveva molto elogiato Leonardo e la sua opera.

Che fine fece l’incompiuto capolavoro leonardesco? È possibile che sia stato distrutto o piuttosto fu salvaguardato dal Vasari – come fece per altre opere – dietro una parete?

Si cominciò a porsi questi interrogativi attorno al 1970. Prima alcuni studiosi fecero delle ricerche storiche sui documenti d’archivio. Poi si decise di usare le nuove apparecchiature tecnologiche a disposizione per cercarne traccia del dipinto nelle pareti della Sala.

Da allora, accompagnate da polemiche infinite difficili da capire, si susseguirono negli anni diverse iniziative di ricerca. C’era ovviamente la preoccupazione di non danneggiare gli affreschi attualmente visibili del Vasari, ma le tecnologie sempre più sofisticate sono diventate anche sempre meno invasive.

Le ultime indagini sono di pochi anni fa e i risultati sono controversi. Ma anche uno dei più critici “lascia uno spiraglio aperto e regala alcuni indizi per un’eventuale ripresa delle ricerche” scrive Corazzini  che conclude: “allora perché fermarsi?”.

Questi capolavori parlano agli uomini di ogni epoca, anche a noi, oggi. Nella “Battaglia di Anghiari” Leonardo seppe esprimere tutto il suo orrore per la guerra che considerava “una pazzia bestialissima”. Non è attuale?

 

Antonio Socci

Da “Libero”, 9 luglio 2023

Nella foto: Studio della testa di un guerriero per la Battaglia di Anghiari (c. 1504–5), 19.1 × 18.8 cm. Museum of Fine Arts, Budapest

 

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