All’inizio era solo lo spot dell’Esselunga. Poi ha finito per diventare un piccolo esperimento sociale. In pochi giorni infatti si è capito che quella breve storia ha toccato una corda profonda. Ha fatto emergere uno stato d’animo molto diffuso, in questo momento, nel Paese.

La reazione scomposta dei soliti maestri del pensiero, che vi hanno visto un’insubordinazione ai dogmi del politicamente corretto, ha contribuito – com’è successo in altri casi – a far apprezzare di più quello spot.

Il suo successo ha fatto emergere un grande bisogno di normalità. Quel cortometraggio è parso alla gente come una boccata di ossigeno, la normalità raccontata con un briciolo di poesia.

È la normalità della vita di tutti i giorni di una famiglia italiana, perché realisticamente oggi tante famiglie vivono situazioni conflittuali e comunque tutte le famiglie – anche non separate – hanno le loro ferite.

Quell’insolito spot ha rappresentato i commoventi sentimenti dei bambini, che guardano, con la loro sensibilità, le difficoltà e i dolori della vita dei loro genitori. E rispondono con un gesto di tenerezza, di affetto.

Non è un caso che sia stata un’azienda che ogni giorno vede migliaia di italiani concreti ad aver saputo intercettare e rappresentare il loro stato d’animo, il loro bisogno di normalità che invece i soloni dei giornali, gli illuminati intellettuali e i politici non vedono.

Perché oggi è così diffuso nella società questo bisogno di normalità? Dopo l’uragano del Covid che ci ha sconvolto la vita (è successo il finimondo: siamo stati addirittura chiusi tutti in casa per mesi), dopo la guerra che, oltre a riportare i cannoni in Europa, ha terremotato l’economia mondiale scatenando un vertiginoso aumento dei prezzi (peraltro l’inflazione c’era già a causa delle politiche green della UE), quello che la gente vorrebbe è un po’ di normalità.

Desidera tornare a una normalità realistica, che non è l’idillio della famiglia del Mulino bianco, ma almeno quella normalità che ci fa sentire umani, anche se contiene tanti problemi.

La normalità significa sapere che bisogna rimboccarsi le maniche, affrontare le difficoltà, le grane quotidiane, ma senza essere schiacciati da ansie apocalittiche di stragi pandemiche, né assillati da possibili guerre mondiali o da catastrofi climatiche imminenti solo perché a luglio fa un po’ caldo.

La normalità a cui aspira l’italiano dimenticato, non visto e non capito, è fatta di cose semplici. Lui vorrebbe vivere in un Paese che sa essere solidale, ma non in balia di un’immigrazione incontrollata.

Non vuole più aver paura di camminare per strada la sera, vorrebbe che la sua città tornasse normale e magari – se abita a Roma – non fosse sommersa di rifiuti. Vorrebbe, se abita a Firenze, che non fosse sotto l’incubo degli autovelox che spennano i cittadini o delle baby gang che impazzano anche a Milano.

Vorrebbe la normalità di città che non hanno zone – come la stazione o certi quartieri (come nel napoletano) – che sono terra di nessuno. La nostra gente vorrebbe un paese normale in cui i prezzi non schizzano di colpo in alto per la follia di una guerra assurda di altri stati.

La normalità che tutti desideriamo significa anche non essere costretti, da decisioni fanatiche e assurde della UE, a dissanguarsi per l’obbligo (del tutto inutile oltretutto) di cambiare l’auto e comprarla elettrica o di fare il cappotto termico alla propria casa, pena la perdita del suo valore.

È la normalità degli italiani che difendono il loro parmigiano e il loro vino, che preferiscono la bistecca alla fiorentina alla carne sintetica e agli insetti. È questo l’italiano che – giornali, intellettuali e politici – non hanno visto arrivare e non vedono nemmeno camminare per strada.

Vorrebbe la normalità di un paese che non è asfissiato dalle tasse, dalle leggi e dalla burocrazia, che non è ogni giorno sommerso dalla cronaca nera ansiogena. Che non è incendiato dai fanatismi ideologici, dilaniato dal settarismo, da un clima da guerra civile permanente.

Desidera la normalità di un Paese dove si può parlare liberamente senza subire demonizzazioni e scomuniche, dove si possono avere opinioni diverse senza essere bollati con etichette squalificanti.

Dove sono i genitori a decidere l’educazione dei propri figli e non si cerca di indottrinarli secondo le visioni ideologiche di alcuni sapientoni che pretendono di fare i pedagoghi della società e rieducare gli italiani.

Un Paese dove magari chi ha responsabilità politiche collabora a cercare le soluzioni migliori, a difesa dell’interesse nazionale. Dove nessuno gioca contro l’Italia, né scredita il nostro Paese all’estero.

Il mite sorriso di Emma – la bambina dello spot – che sogna di riportare armonia fra i suoi genitori ha intenerito gli italiani. È facile identificarsi, per un attimo, con quel padre o quella madre e sentirsi guardare con l’affetto di quella bambina, perché è lo sguardo dei nostri figli. L’eco dei loro sogni. Tutti sappiamo che sono momenti di grazia, piccoli miracoli della vita quotidiana.

Un grande poeta, Charles Péguy, diceva che “quando una parola di bimbo cade/ come una fonte, come un riso,/ come una lacrima in un lago”, gli adulti hanno un attimo di strana sospensione, come se sentissero che è la loro anima che passa:

“Nel guazzabuglio quotidiano/ della tavola di famiglia/ O uomini e donne seduti a quella tavola/ all’improvviso curvando il capo voi ascoltate passare/ la vostra anima antica”. Perché “una voce è venuta,/uomini a tavola,/ come da un’altra creazione”.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 30 settembre 2023

 

 

 

 

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