Ci sono voluti due terremoti per far scoprire all’Italia la sua “civiltà appenninica”, cioè l’Italia dei borghi arrampicati sulle colline e sulla dorsale montuosa della penisola.

Ma questa “Italia appenninica” è molto più dei paeselli pittoreschi costruiti in pietra e della buona cucina casereccia poi importata nei ristoranti metropolitani. Molto più dell’amatriciana.

Il terremoto che insiste su quei monti che vanno da Norcia ad Assisi, da Greccio a Gubbio e a Cascia, colpisce il cuore dell’Italia mistica.

Da qui ha cominciato a sorgere l’Europa cristiana: dalle montagne di Norcia dove è nato san Benedetto (e con lui il monachesimo occidentale) e dai colli di Assisi dove è nato ed è vissuto san Francesco (e dove Giotto – pittore appenninico per eccellenza – ha realizzato la svolta decisiva dell’arte figurativa italiana).

E’ dunque la culla di quell’Europa cristiana che l’Ue odierna, in mano a tecnocrati fallimentari, non ha voluto riconoscere nella sua Costituzione.

La stessa Ue che – a quanto pare – non consente all’Italia di finanziare un piano pluriennale di “messa in sicurezza” di questi antichi centri abitati.

IL CUORE DEL MONDO

L’ “Italia appenninica” è quell’ “umile Italia” che Dante evoca proprio all’inizio della Divina Commedia, legandola agli eroi che Virgilio canta nell’epopea della nascita di Roma: la “vergine Camilla”, Eurialo, Niso e Turno.

Dante aggiunge al passato il futuro da lui sognato, quel misterioso “veltro” che “di quella umile Italia fia salute”, cioè salvezza. Dante ama questa Italia pre-romana, poi latina, francescana e benedettina.

La mappa dei due terremoti sembra davvero evidenziare non solo un’area geografica, ma anche storica.

Pure i monti sibillini sono un luogo di leggende antiche dove si uniscono l’antichità pagana, con i suoi oracoli, è l’annuncio cristiano, che – nel Medioevo – crederà di trovare nelle Sibille i presagi messianici che erano espliciti nei profeti d’Israele.

E per questo le Sibille sono rappresentate nelle cattedrali medievali e pure in Vaticano.

Curiosamente la fascia d’Italia colpita dai due terremoti, a cavallo degli Appennini, sembra coincidere quasi perfettamente con l’antico stato pontificio (anche Roma ha tremato).

Infatti arriva fino alle colline marchigiane cantate da Leopardi, che – da Recanati – è il grande poeta dei colli dell’Appennino e dei suoi borghi.

Proprio di lui si è parlato per le ultime due scosse, perché uno dei paesi più colpiti, Visso, custodiva, nel Palazzo dei Governatori, il manoscritto dell’“Infinito”.

Cantare l’Infinito dalle dolci e ondulate colline marchigiane, che sembrano il regno delle piccole cose, è davvero un’espressione del “genio italico”.

La nostalgia dell’assoluto nella domestica semplicità delle nostre valli, piene di torri, boschetti, torrenti, campi e filari.

D’altronde dal colle di Recanati, il grande e timido Giacomo – affacciandosi – poteva scorgere un altro borgo marchigiano che sta proprio lì davanti, Loreto, dove si trovano misteriosamente le povere mura della Santa Casa in cui l’Infinito si è fatto carne, si è fatto uomo. Dove la Bellezza si è incarnata.

VESCOVI ALLO SBANDO

Sarebbe stato meraviglioso che i vescovi italiani – come era stato proposto nei giorni del primo terremoto – proprio a Loreto, dove è la Casa di tutte le case, che l’Italia ha il privilegio di custodire – avessero celebrato un grande e solenne rito di consacrazione e di benedizione sul nostro Paese e sulle case degli italiani.

L’Italia umile e cattolica dei secoli passati, l’Italia contadina e appenninica, ma anche alpina e padana e meridionale, ha vissuto per secoli come “concittadina e familiare dei santi” e della Madonna del soccorso, aiuto dei cristiani, e – nei pericoli incombenti (terremoti, invasioni, epidemie) sempre ha trovato rifugio sotto il manto della Vergine e nella preghiera di affidamento.

Ma oggi la Cei di mons. Galantino cerca gratificazioni mondane ed è impegnata a partecipare alla marcia organizzata dal Partito radicale.

Quindi snobba con disprezzo la fede del popolo cristiano e questi antichi atti di consacrazione e di affidamento. Sono troppo cattolici.

LA DOPOSTORIA

La civiltà appenninica ci racconta anche una storia di spopolamento e inurbamento – avvenuta tumultuosamente dagli anni Sessanta – che è anche intrecciata con la scristianizzazione delle nostre popolazioni.

Ecco perché l’Italia appenninica dei borghi ci parla di una cristianità che non c’è più e di una civiltà contadina che – dopo dodicimila anni – è stata spazzata via di colpo in pochi mesi: il 1960 è il crinale di un’epoca, l’anno in cui, per la prima volta, gli addetti all’industria superarono gli addetti all’agricoltura.

Un fenomeno gigantesco che – certo – ha voluto dire anche benessere, ha significato la 500 acquistata da tutte le famiglie italiane, la scuola per tutti e un assaggio di mode e di modernità.

Ma qualcosa di immenso è andato perduto in quella ventata – pur benedetta – di benessere, dopo secoli di povertà. Qualcosa che era alla radice della nostra identità italiana. La nostra anima.

Un poeta visionario e totalmente fuori dagli schemi lo intuì. Quasi solo lui. Come un rabdomante alla ricerca dell’anima perduta di un popolo e di una civiltà contadina millenaria scomparsa di colpo.

Parlo di Pier Paolo Pasolini, lui che dai borghi del Friuli era arrivato, pieno di libri e senza una lira, nella Roma che si riempiva di povera gente delle campagne e degli Appennini, che andavano ad abitare nelle borgate fatte di baracche.

Continuo a rileggere questa sua poesia del 1962 come uno struggente e profetico affresco dell’Italia che non c’è più e che però non si può dimenticare, senza perdere la nostra stessa anima:

“Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l’Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,

come i primi atti della Dopostoria,

cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,

dall’orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno di ogni moderno

a cercare fratelli che non sono più”.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 30 ottobre 2016

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Twitter: @AntonioSocci1

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