I peggiori erano sicuramente i ragazzini più giovani. Avevano l’incarico di svegliare le persone la mattina molto presto e di perquisire le loro case (…) gli avevano fatto il lavaggio del cervello, non si rendevano conto delle conseguenze delle loro azioni. I genitori ormai avevano perso ogni controllo o influenza su di loro. Padri e madri avevano paura dei propri figli, sapevano che distribuivano delle ricompense speciali per i bambini che denunciavano i familiari”.

È una pagina di Calvario in Cina (Ares), memoriale autobiografico di Robert W. Greene, sacerdote americano che, missionario in Cina, ha potuto vedere e raccontare l’arrivo dei comunisti e l’instaurazione del regime. I “rossi” arrivarono il 5 dicembre 1949 nel piccolo villaggio di cui Greene era parroco, Tong’an, nel nord del Guangxi.

Valeria Stella Papis, nella prefazione, spiega che “laggiù, prima della fondazione della Repubblica popolare cinese, il comunismo non aveva attecchito, nonostante gli sforzi di un giovane e sconosciuto Deng Xiao-ping che nel 1929 era stato inviato a fare propaganda”.

In tutta la Cina “nella prima metà degli anni Quaranta ben pochi si aspettavano che il mal organizzato e peggio equipaggiato Partito Comunista Cinese potesse conquistare il potere”. Ci riuscirono perché – dopo la resa dei giapponesi del 1945 – si impossessarono delle loro armi e dell’equipaggiamento soprattutto grazie alle truppe sovietiche penetrate in Manciuria che consegnarono ai guerriglieri di Mao il materiale bellico nipponico. Mentre gli Usa di Truman furono riluttanti ad appoggiare il governo nazionalista di Chiang Kai-shek.

Il Guanxi era nazionalista. A Tong’an non avevano vissuto né l’occupazione giapponese, né la guerra civile. Era un tranquillo villaggio agricolo di piccoli proprietari e “a memoria d’uomo” scrive Papis “prima dell’arrivo dei comunisti nessuno ricordava la presenza di prigioni”. Arrivarono subito, con l’odio e i massacri, sotto la bandiera rossa.

Arrivò pure la riforma agraria del 1950 che confiscava i terreni. Suscitò la reazione dei contadini che organizzarono una resistenza anticomunista, ma naturalmente il regime la schiacciò.

La macchina infernale del maoismo puntò a indottrinare la gente e, un po’ per il lavaggio del cervello, un po’ per il terrore di subire atrocità, Greene racconta cambiamenti repentini. Ma i maoisti, come dicevamo, volevano soprattutto fanatizzare i più giovani.

I motivi sono chiari: occorreva anzitutto distruggere i legami familiari e far capire che tutti erano diventati “proprietà” dello Stato, ovvero del Partito. Inoltre i giovani sono i più facili da plasmare e per il comunismo, che voleva creare l’“uomo nuovo”, sono la prima scelta. Pochi anni dopo saranno pure i protagonisti dell’immenso bagno di sangue della rivoluzione culturale.

Il memoriale di Greene racconta che subito iniziarono le persecuzioni contro i cristiani. Lui fu recluso e processato, con il solito corteo di umiliazioni, torture e violenze. Fu condannato a morte e poi graziato ed espulso dalla Cina proprio perché americano (per evitare scontri diplomatici). Ma per tanti cattolici cinesi ci fu il martirio o i lager, come ricorda sempre il card. Zen.

Quando Greene fu espulso gli dissero: “in 10 anni l’America sarà nostra, i comunisti americani sistemeranno quelli come te”. Ma lui conclude il suo memoriale esprimendo il desiderio di tornare in Cina, “per la salvezza e la conversione dell’intera Cina”. Questo scontro di civiltà è al culmine proprio ai giorni nostri.

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Antonio Socci

Da “Libero”, 7 dicembre 2025