2006, ODISSEA NELL’OSPIZIO
Il fallimento di Prodi e Berlusconi (circa 140 anni in due), la necessità di un cambio generazionale per…

Che spettacolo sta dando la Banda d’Italia? Il 9 aprile due arzilli settantenni si disputano l’avvenente e fascinosa Italia: quello che vincerà concluderà il suo quinquennio di governo nel 2011 incamminato verso l’ottantina. Mentre l’attuale presidente della Repubblica – 86 anni – sta per essere ricandidato così da concludere allegramente il suo mandato a 93 anni. Abbiamo davanti un anno di elezioni che può essere rappresentato alla maniera di Stanley Kubrik: 2006, odissea nell’ospizio.

Nel Paese che si è svenato per mandare in pensione la gente a 50 anni, nel Paese dei baby pensionati, solo in politica non si va mai in pensione. Ma è giusto far ricadere su persone anziane, meritevoli di riposo, il peso della progettazione del nostro futuro? La guida di un Paese moderno – specialmente l’Italia che è a rischio declino – richiede energie giovani, capacità di rinnovamento, dinamismo, idee nuove (e anche facce nuove). Dovunque s’impone un periodico cambio generazionale.

Negli Stati Uniti si diventa presidenti a 45 anni (e dopo quattro o al massimo otto anni si va in pensione o si fa altro) e così accade in tutti gli altri Paesi. Kennedy fu eletto alla Casa Bianca a 43 anni, Clinton a 46 e George W. Bush a 54 anni. Anche Aznar è diventato capo del governo spagnolo a 47 anni e Zapatero a 45. In Gran Bretagna Blair diventò premier a 44 anni, la Merkel in Germania a 51 e Putin in Russia a 47 anni. Invece da noi a 45 anni si è considerati dei “pischelli”. Da una gerontocrazia che si ritiene virtualmente “immortale” e non disponendo del ritratto di Dorian Gray rimedia col chirurgo plastico e la tintura. Hanno perso la “lozione” del tempo. L’unica altra inamovibile gerontocrazia fu quella dell’Unione Sovietica e dei paesi comunisti dove infatti non cambiava mai niente (per questo crollò tutto di schianto). Breznev morì al potere a 76 anni e così pure Cernenko a 73 anni, Andropov a 78 anni e Mao a 82 anni. Ci voleva l’Onnipotente per schiodarli dal potere. Da noi per fortuna basterebbe il voto. Se non altro Berlusconi ha delle alternative generazionali: Casini e Fini. Prodi non ha neanche quelle: prendere o lasciare. Ma resta il fatto che la sfida principale è fra Silvio e Romano: circa 140 anni in due, 226 anni se aggiungiamo Ciampi. Allegria. Siamo già il Paese più vecchio d’Europa, un Paese – come ha denunciato il sociologo Henri Mendras su Le Monde – a rischio di estinzione, perché non fa più figli, e a rischio di collasso economico per la sproporzione futura fra occupati e pensionati. Per invertire vigorosamente la rotta ci vuole una rivoluzione culturale, ci vogliono forze giovani e idee nuove, una ventata di speranza, di fervore costruttivo ed entusiasmo. Non degli usurati protagonisti del secolo scorso, anzi del millennio scorso (Prodi era già ministro – e ben poco brillante – nel 1978, quasi 30 anni fa… ma in quale Paese accade un fatto così buffo?).

Oltretutto la sfida Berlusconi-Prodi c’è già stata dieci anni fa, nel 1996. E dieci anni in politica sono un’eternità. E’ come un film già visto, come una barzelletta raccontata male o una minestra riscaldata. La Ribollita è un ottimo piatto, ma a tavola, non in politica dove i bolliti danno il mal di pancia. Trovarsi costretti nel 2006 a scegliere ancora una volta fra Prodi e Berlusconi è come andare ai Mondiali di calcio in Germania e – anziché Toni e Gilardino – schierare Mazzola e Rivera. Che Prodi e Berlusconi oggi siano in forma quanto lo sono Mazzola e Rivera lo dimostra questo inizio di campagna elettorale: zero idee, zero prospettive del futuro, zero visione di un Paese moderno.

Hanno già dato il meglio e il peggio di sé. Ed entrambi hanno perso la loro sfida. Prodi è un uomo di spirito, ma solo nel senso della celebre seduta spiritica. Non ha ancora digerito di essere stato preso a calci dai suoi partner dopo soli due anni dalla vittoria del 1996: si succedettero quattro governi in cinque anni, rabberciati al mercato delle vacche in Parlamento. Un vero carnevale. Nell’epoca ulivista è cominciato il declino del Paese: dal 1995 al 2001 la quota italiana nel commercio mondiale è crollata del 20 per cento e – sempre nello stesso periodo – la nostra crescita è stata la metà degli altri paesi industrializzati, mentre la produzione industriale, fra 1995 e 2002, è cresciuta solo di un terzo rispetto agli altri paesi europei. Pur essendo la sesta economia mondiale, nel triennio 1999-2001, per reddito lordo pro-capite, corretto dal potere d’acquisto, siamo crollati al 28° posto.

L’Italia diventa il Paese del mondo a più bassa natalità e dove, caso unico, il numero dei pensionati supera quello degli occupati. In questo periodo, grazie al conservatorismo di sindacati e sinistra, l’Italia dedica fra il 43 e il 50 per cento della spesa pubblica totale alla “funzione vecchiaia” mandando in pensione persone ancora dinamiche, in età attiva, per dare poi solo gli spiccioli (fra lo 0 e il 2 per cento) a famiglia, disoccupazione, esclusione sociale, abitazioni. Così mancano risorse per investire in scuola, ricerca, innovazione, infrastrutture. E’ un Paese triste, che non ha futuro, quello degli anni dell’Ulivo, dove è alta la disoccupazione e aumentano i poveri.

Con lacrime e sangue (nostri) hanno centrato l’ingresso nell’euro, ma conseguito in modo così disastroso che oggi ne paghiamo salatamente le conseguenze, sia come consumatori che come sistema industriale (le paga anche il resto d’Europa che infatti per protesta ha bocciato la patacca della Costituzione europea). Il regalo finale lasciatoci dal quinquennio ulivista è stato un mega buco di bilancio (nascosto e negato a lungo) – per spese elettoralistiche – di 38 mila miliardi di lire che oltretutto poneva l’Italia fuori dai parametri europei. E questo bel fallimento è stato condito con tutto il ciarpame ideologico e le contraddizioni di quella compagine – dal caso Ocalan al bombardamento della Jugoslavia – e con la paralisi di ogni modernizzazione per i mille veti verdi e rifondaroli. Del resto l’armata Brancaleone è rimasta tale e oggi – più spompato e traballante che mai – Prodi si ritrova nelle stesse condizioni di potenziale “trombato” e con un programma elaborato per mesi e già bocciato. La barca (senza allusioni) fa già acqua. Tanto che il candidato non viene mandato neanche in tv per la sua disastrosa incapacità di comunicare: il suo borbottio davanti alle telecamere è avvincente come una pentola di fagioli in ebollizione. Berlusconi ha garantito se non altro cinque anni di stabilità. Ma non ha saputo invertire la rotta del declino. La crescita dell’economia italiana è al lumicino (sempre metà di quella europea). L’export italiano ha continuato a perdere terreno (anche rispetto agli altri paesi europei). Nella classifica della competitività del Global Competitiviness Report elaborata dal World Economic Forum eravamo al 26° posto nel 2001 e oggi siamo precipitati al 47°. Fra le prime cento aziende del mondo non ce n’ è una italiana e tutto fa temere che fra 10-15 anni in Italia non si produrrà più nulla. Certo ci sono anche buoni risultati: il calo storico della disoccupazione (dal 9,6 per cento verso il 7 per cento), ma in un impoverimento generale. Ci sono alcuni curiosi paradossi segnalati da Luca Ricolfi in “Dossier Italia”. Per esempio una serie di obiettivi politici che erano stati indicati dal centrosinistra sono stati realizzati dal centrodestra (più spesa sociale, meno povertà relativa, diminuzione della disoccupazione, ristagno delle privatizzazioni) e una serie di obiettivi del centrodestra sono stati conseguiti dal centrosinistra (liberalizzazione del mercato del lavoro, decollo delle privatizzazioni – fatte male – ristagno della spesa sociale). Il Cavaliere ha perso la sua sfida innanzitutto con l’opinione pubblica di centrodestra che ha notato una certa solerzia del governo sulle questioni di interesse diretto del premier, mentre la rivoluzionaria sfida del Contratto con gli italiani – che tassativamente esigeva il conseguimento vero di almeno quattro dei cinque obiettivi – è stata relizzata solo a metà, quindi è stata perduta. Sotto quel contratto c’è la firma di Berlusconi e oggi non può nascondersi dietro a un dito. E’ questo il suo contrasto con gli italiani. Certo c’è un motivo decisivo e colossale per decidere di votare comunque il centrodestra: è questo centrosinistra. Basta sentirli parlare (Bertinotti, Diliberto, Pecoraro, Mussi) per scappare. E’ – per così dire – una scelta culturale, una certa idea della vita, dell’Italia e del mondo. Non che nel centrodestra – dove si confonde don Sturzo con Don Lurio – ci sia una cultura alternativa. Ma almeno, in questo vuoto, viene consentita più libertà e soprattutto non c’è ideologia. C’è perfino qualche attenzione ai valori.

Il mio amico Giuliano Ferrara ha scritto che il berlusconismo è alla frutta. Ed è vero. Ma poi ha convocato una manifestazione per piangere coralmente la sconfitta di Berlusconi. Non vorrei che dalla frutta si passasse alla grappa. Perché dare per persa la partita? Credo che per il centrodestra ci sia ancora la possibilità di vincere. Ma – dicono i sondaggi – solo se la Casa delle libertà e innanzitutto Berlusconi s’inventano un colpo di reni, uno scatto d’immagine e di sostanza, un cambio generazionale (e di candidato premier). Solo se rivendicano i meriti (che ci sono) e riconoscono però di non aver vinto la scommessa che avevano fatto, passando la mano a una nuova classe dirigente con nuove idee coraggiose e forti (per esempio sull’energia: il nucleare). Un nuovo gruppo dirigente capace di far ingranare la quinta all’Italia. In questo caso, come grande architetto del cambiamento, Berlusconi compirebbe il suo capolavoro e potrebbe ambire legittimamente al Quirinale. Ma deve ricordare che in politica si è al servizio del Paese non viceversa, deve avere oggi il coraggio di andare oltre se stesso e fare un passo indietro. E temo che non gli sia facile passare per la cruna dell’Ego.

Fonte: AntonioSocci.it

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